Bellissimo allestimento di Don Pasquale, quello in scena in questi giorni al Teatro alla Scala di Milano. Il regista Davide Livermore, assieme allo Studio Giò Forma, ricrea la Roma degli anni ’50, la stessa celebrata dalle pellicole di Fellini, Visconti, De Sica, e vi trasporta la vicenda originale, arricchendone i contenuti con una moltitudine di spunti visivi riconducibili all’immaginario di quell’epoca dorata. L’esilarante antefatto escogitato dal regista si svolge sulla scena durante l’ouverture e mostra il funerale della ingombrante e ossessiva madre di Pasquale, spirata quantomeno novantenne (considerando i settanta ben portati del protagonista) dopo aver trascorso l’intera vita a impedire qualsiasi contatto del figliolo con l’altro sesso. E via così di situazioni che sono anche citazioni: gli studi di Cinecittà brulicanti di lavoratori del cinema in pausa sigaretta, Norina a bordo di un’automobile che, grazie alla “virtù magica”, si libra nei cieli della capitale in uno spassoso volo, una sfilata di moda degna degli atelier di una Schiaparelli o di una Biki, Ernesto reietto e circondato da varia umanità alla stazione Termini.
Una regia piena di riferimenti alla celluloide, realizzata attraverso imponenti scenografie in un “bianco e nero” che il superbo disegno luci di Nicolas Bovey declina in tutte le possibili e immaginabili nuances del grigio. Circa un centinaio i costumi firmati da Gianluca Falaschi, che impressionano sia per l’altissima qualità della realizzazione sartoriale, sia per il lavoro di ricerca dietro a ogni singolo dettaglio estetico. E grandiose le videoproiezioni targate D-wok, tra le quali si distingue il ritratto animato della vegliarda che Livermore immagina un po’ Tina Pica, un po’ Margaret Hamilton, ovvero la perfida Strega dell’Ovest ne Il mago di Oz.
Note positive anche dal cast. Apprezzabile il Don Pasquale schizzato da un Ambrogio Maestri in buona forma vocale, e che evita opportunamente di lasciarsi andare alle incrostazioni buffonesche di una tradizione che si spera ormai superata. La voce, sempre debordante, viene piegata con profitto alle esigenze della scrittura donizettiana, a eccezione del rapido sillabato che chiude vorticosamente il duetto con Malatesta, momento che il baritono pavese risolve con scarsa incisività. Altrove, la dizione chiarissima e alcune felici intuizioni interpretative permettono di godere appieno delle sfumature che caratterizzano il personaggio.
Mattia Olivieri è un Malatesta obbligato di continuo a movimenti frenetici, a tratti disturbanti, che rendono quella simpatica canaglia del dottore in pratica un esagitato. In possesso di uno strumento ben timbrato, Olivieri, probabilmente non in una delle sue serate migliori, stenta a convincere a causa dei recitativi poco curati (perché affidati più al parlato che al canto), e di alcuni attacchi imprecisi nell’intonazione e fissi nell’emissione. Di contro, le agilità del duetto con Norina sono ben sgranate, così come risulta efficace il sillabato di quello con Pasquale, peraltro eseguito con un’unica presa di fiato.
René Barbera è invece un Ernesto di gran classe, cantato benissimo, e che non conosce smagliature di sorta. Il timbro da tenore lirico-leggero, nonostante la tipica nasalità nel medium della voce, si apre ed espande nella salita ad acuti che vibrano e squillano a dovere. L’aria “Cercherò lontana terra” si avvia patetica e dolente per poi sfociare in una cabaletta ben eseguita e coronata da uno svettante mi bemolle sovracuto. Spiace doppiamente che a fronte di un tale Ernesto, in buca non si adotti un tempo più indugiante per la serenata all’ultimo atto, al contrario condotta frettolosamente, vanificando il suggestivo effetto notturno connaturato al brano.
Rosa Feola dona a Norina una vocalità insolitamente rotonda e sensuale, che si sposa alla perfezione con l’immagine procace e voluttuosa delle vedette in voga negli anni post-bellici. Nonostante il carattere pungente e civettuolo del personaggio resti un poco in ombra (non bisogna dimenticare che Norina discende direttamente da certe primedonne del teatro comico del settecento, capitanate dalla Serpina di pergolesiana memoria), la Feola sopperisce ampiamente esibendo garbo nel porgere la frase, e una musicalità sopraffina con la quale viene a capo anche delle pagine improntate al canto d’agilità. Disinvolto e divertente il Notaro di Andrea Porta.
Riccardo Chailly alla guida dell’Orchestra del Teatro alla Scala, pur dirigendo con la consueta perizia, dà come l’impressione di procedere con il freno a mano tirato, quasi si sentisse costretto in panni troppo stretti. L’alternanza della dinamica forte/piano si ripresenta in maniera quasi circolare durante tutta l’opera, a tratti con quell’effetto dirompente che poco si addice all’elegante levità di Donizetti in generale, e in particolare del Don Pasquale. Ottimo l’apporto del Coro diretto da Bruno Casoni.
Teatro alla Scala – Stagione d’Opera e Balletto 2017/2018
DON PASQUALE
Dramma buffo in tre atti
Libretto di Giovanni Ruffini e Gaetano Donizetti
Musica di Gaetano Donizetti
Don Pasquale Ambrogio Maestri
Norina Rosa Feola
Ernesto René Barbera
Dottor Malatesta Mattia Olivieri
Un notaro Andrea Porta
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Direttore Riccardo Chailly
Maestro del coro Bruno Casoni
Regia Davide Livermore
Scene Davide Livermore e Giò Forma
Costumi Gianluca Falaschi
Luci Nicolas Bovey
Video design D-wok
Nuova produzione Teatro alla Scala
Milano, 14 aprile 2018