Il tenore Antonio Corianò non ama bruciare le tappe, o forse la sorte gli ha riservato il destino di costruire la carriera a piccoli ma significativi passi. Il suo debutto in teatro avviene nel 2012, nel Trovatore per il Ravenna Festival, dove si fa subito notare per la particolare bellezza del timbro vocale. Seguono altri anni di studio e importanti esperienze formative che, seppur non in ruoli di primo piano, gli danno la possibilità di crescere e imparare alla grande scuola del palcoscenico esibendosi nei più importanti teatri italiani sotto la guida di alcune fra le più prestigiose bacchette della musica lirica. Si ricordano sue presenze nel Macbeth di Verdi al Teatro dell’Opera di Roma diretto da Riccardo Muti, al Teatro del Maggio Musicale di Firenze diretto da James Conlon e al Teatro alla Scala di Milano sotto la guida di Valery Gergiev. Poi ancora nella Traviata, al Teatro alla Scala, diretta da Daniele Gatti, Nabucco e Madama Butterfly al Teatro Petruzzelli di Bari, Attila al Teatro Regio di Parma sotto la bacchetta di Gianluigi Gelmetti.
Dopo questi significativi anni di apprendistato, l’occasione per esprimere appieno il proprio talento in una parte importante gli viene ancora offerta dal Ravenna Festival nel 2020, che lo sceglie per fargli debuttare il ruolo di Don José nella Carmen di Bizet. Poi arriva la scrittura dell’Opéra di Monte-Carlo, dove sostiene la parte di Arvino nei Lombardi alla prima Crociata. La stampa francese parla di lui come “il tenore dalla voce di spada”. Finalmente giungono le scritture per parti importanti: ancora come Don José in Carmen al Teatro de la Maestranza di Siviglia, poi quella del protagonista in Aroldo di Verdi per il Ravenna Festival e il debuttato il ruolo di Riccardo ne Un ballo in maschera al Teatre Principal de Palma de Mallorca e quello di Rodolfo in Luisa Miller al Teatro di Erfurt.
Dopo aver vestito i panni di Pollione in Norma per i teatri del Circuito Lombardo, parte che in questi giorni ha ripreso al Teatro Carlo Felice di Genova, ha debuttato come Mario Cavaradossi in Tosca che il Gran Teatre del Liceu di Barcellona ha proposto nel discusso allestimento del regista spagnolo Rafael R. Villalobos. Lo abbiamo incontrato per fotografare il momento di una carriera che lo sta imponendo all’attenzione internazionale per il timbro brunito e la tecnica di puro stile italiano. Cominciamo dagli inizi, per parlare della sua formazione.
Quando è iniziato il suo percorso formativo e a chi deve soprattutto dei grazie per aver formato la tecnica che oggi le permette di affrontare ruoli importanti dopo un percorso, mi permetta, anomalo, che l’ha visto imporsi a piccoli passi in ruoli di contorno prima di avvicinare le grandi parti?
Mi sorprendo spesso a pensare quale sarebbe stato il mio percorso di vita se, studente di medicina con scarsi profitti, non mi fossi trovato iscritto, e a mia insaputa, al concorso Callas. Mi presentai incoscientemente, senza avere né i benché minimi rudimenti musicali né tantomeno alcuna base tecnica di canto. Fu mia madre a iscrivermi con l’illusoria speranza che ricevendo un chiaro “No, grazie” avrei abbandonato ogni velleità canora per dedicarmi seriamente a costruire il mio futuro di medico. Ma il destino era in agguato e la signora Renata Scotto dopo l’audizione, anziché cacciarmi, mi incoraggiò a intraprendere gli studi musicali. Mi trasferii quindi a Parma, mi iscrissi al conservatorio e frequentai i corsi del Verdi Opera Studio al suo fianco. Fu la signora Scotto che, al termine di una lezione, si lasciò andare a una previsione che ho ancora bene in mente perché – non comprendendone allora il significato – la scrissi su uno spartito. Mi disse: “mio caro, tu hai una voce da autentico tenore lirico spinto, è ampia e ricca di armonici, una voce che ti darà soddisfazione, ma prima dovrai imparare a domarla e questo non sarà facile”; e aggiunse: “la tua voce è naturalmente scura, e tu dovrai sempre cercare la luce”. Oggi, forse, riesco a capire cosa intendesse. Da allora tanta acqua è passata sotto i ponti e, nel mio percorso di apprendimento, ho incontrato altri maestri; ciascuno di loro ha contribuito alla mia formazione, Raúl Giménez e Dolora Zajick in modo particolare. Ma l’incontro che più di ogni altro ha dato grande impulso al mio percorso formativo è stato quello col soprano Sondra Radvanovsky. Ascoltò la mia voce in Tosca al Teatro Real di Madrid, dove ero cover come Cavaradossi, e mi diede dei preziosi consigli per contenerla e ben gestirla. Così hanno fatto anche Paolo Barbacini e Jessica Pratt, che più recentemente hanno contribuito all’evoluzione delle mie conoscenze in materia di tecnica.
Quali sono le caratteristiche della sua voce in rapporto alle scelte di repertorio fatte fino ad ora e a quelle che vorrebbe scegliere per il futuro?
Non ho mai ho vinto un concorso, né posso dire che la mia carriera sia partita col botto. Debuttai nel Trovatore con una scelta, almeno per allora, poco consapevole e decisamente azzardata, anche se la voce si mostrò da subito bella e ampia. La signora Cristina Mazzavillani Muti, che mi diede questa importante opportunità, mi consigliò da subito di dare precedenza allo studio della tecnica e mi indirizzò verso ruoli meno impegnativi che potevano, comunque, garantirmi un contatto esperienziale con le scene. Così feci: tanta gavetta, piccoli ruoli, ma in grandi teatri e con grandi direttori. L’evoluzione lenta ma costante mi ha portato nell’arco di un decennio verso una maggior consapevolezza e a una buona conoscenza del mio strumento, del quale oggi conosco i punti di forza ma soprattutto quelli che ancora devo migliorare. La scelta del mio repertorio è quindi una naturale conseguenza di quanto ho detto finora e vorrei dedicarmi a ruoli che mi stiano vocalmente comodi. La natura della mia voce possiede centri spaziosi e una zona grave altrettanto sviluppata. Col tempo ho trovato maggiori aperture in acuto, che inizialmente sentivo come più limitanti. In questo mi ha aiutato la tecnica.
Che cosa significa per lei – sempre che ancora esista e abbia senso parlarne – inserirsi nella tradizione del canto all’italiana?
Il canto all’italiana: un argomento del quale molto si è parlato e ancor più si è scritto, spesso in modo contraddittorio. Pur preferendo lasciare a chi è più esperto di me il dissertare sul tema, le potrei dire che, se per canto all’italiana intendiamo il canto di Gigli e di Filippeschi, o di Pavarotti, o anche di Kraus, che cantavano sul fiato, con la laringe bassa, il suono sempre alto, in maschera e sempre proiettato in avanti, che lasciavano fluire una voce chiara e omogenea che si espandeva nella sala con piani e pianissimi che arrivavano fino al loggione, ebbene se per canto all’italiana intendiamo tutto questo, allora credo di poter affermare che anche il mio canto si possa inserire nel solco di questa tradizione.
In quale repertorio sente che la sua voce possa attualmente esprimere il meglio di sé?
D’acchito, le risponderei in tutti in quelle parti che mi consentono di sfogare la voce, quindi i ruoli verdiani che richiedano un certo peso vocale e accento drammatico, fra quelli pucciniani Pinkerton e Cavaradossi, oppure Enzo Grimaldo nella Gioconda di Ponchielli, o ancora Don Josè in Carmen. Cito per ultimo Pollione nella Norma, che sento via via appartenermi sempre più.
Lei ha già affrontato parte verdiane di un certo impegno. Crede che Verdi richieda caratteristiche vocali specifiche o che possa essere avvicinato anche da interpreti che, concentrandosi sulla parola o su altre caratteristiche significative, possano oltrepassare quella che è stata la tradizione dell’epoca aurea del canto novecentesco, che ha donato a Verdi una muscolosità di suono oggi non più richiesta come dato essenziale per l’interprete verdiano?
Quando si parla di interprete verdiano non possiamo dimenticare che Verdi compose ventisette opere nell’arco di circa cinquant’anni e quindi dobbiamo fare dei distinguo e, parlando della mia corda, le posso dire che le caratteristiche vocali dell’interprete del Duca di Mantova in Rigoletto non sono propriamente quelle richieste per Rodolfo in Luisa Miller. Se volessimo generalizzare però il mio pensiero, va sottolineato come Verdi richieda sostanza e proiezione sonora, solidità dello strumento vocale e fuoco negli accenti. Insieme a questo, il canto, nella nobiltà del legato, deve saper esprimere emozioni e, a parer mio, non può però essere privo di quella muscolosità di suono a cui lei fa riferimento.
Rimaniamo nel campo della tradizione esecutiva, rapportando il presente con quello che è stato il passato, partendo proprio da una parte come quella di Pollione in Norma, che sta divenendo un suo cavallo di battaglia e in questi giorni sta interpretando a Genova. Come è il modo giusto per sostenere una parte da baritenore legata a radici che affondano nella tradizione del canto ottocentesco e richiedono pertanto regole ben specifiche, forse lontane da quelle che nel Novecento si sono adottate quando Pollione è divenuto appannaggio di grandi declamatori come Mario Del Monaco e Franco Corelli?
Certamente, ma non dobbiamo dimenticare che anche i tenori dell’epoca, come Donzelli o Rubini, erano noti per il tono drammatico, per il cosiddetto “canto vibrato”, da non confondersi con il significato che oggigiorno si dà al tremolo della voce, bensì l’accentuazione patetica, espressiva ed enfatica. Indubbiamente all’epoca esistevano regole ben precise, ma forse l’elemento che più ci discosta da quelle vocalità riguarda le caratteristiche specifiche legate al tipo di impostazione e di emissione per cui Bellini componeva. La dicotomia dei registri, ad esempio, ora considerata un difetto, all’epoca era un segno distintivo di un’estetica unanimemente accettata, con una chiara e netta distinzione fra il registro di testa e di petto. Domenico Donzelli, il primo Pollione, sicuramente cantava tutti gli acuti in falsettone. Chiaramente il peso della tradizione dei grandi tenori del Novecento ci impedisce di presentarci oggi con questo tipo di tecnica, seppure tutti i capolavori che ci troviamo ad ascoltare fossero concepiti per essere cantati così. A volte può capitare, come in questa produzione, che maestri come Riccardo Minasi richiedano di cantare secondo un’idea estetica che si avvicini a quella dell’epoca, ma è difficile riuscire a soddisfarli appieno.
Lei ha recentemente debuttato la parte Cavaradossi in Tosca e, subito, con uno spettacolo discusso e difficile. Ci vuole parlare di come è stato il suo approccio al ruolo e come si è plasmato su un allestimento sul quale si è tanto discusso?
Inizialmente ero perplesso, finché capii che l’unico modo per poter continuare sarebbe stato quello di comprendere l’anima di Cavaradossi, nello specifico di questo Cavaradossi; l’unico ad averne la chiave era il regista. Chiesi allora al maestro Villalobos di trascorrere insieme il nostro tempo libero e abbiamo passato intere serate a raccontarci di noi, fintanto che, durante una cena, mi parlò del suo periodo di vita trascorso a Roma in una casa dalle cui finestre poteva vedere la scritta “O Roma o morte” che compare sulla base del monumento a Garibaldi sul Gianicolo, da quel momento cominciai a capire la visione che lui aveva della Tosca filtrata dalla poetica pasoliniana. La conferma di essere riuscito a dare vita alla sua idea del personaggio la ebbi però soltanto alla prova generale quando, al termine del secondo atto dopo la scena che rimanda a Salò o le 120 giornate di Sodoma, mi avvicinò dietro le quinte e mi disse “Sto vedendo in scena il mio Cavaradossi… continua così!”. Fu uno spettacolo molto contestato e divisivo, acclamato alle recite dedicate ai giovani e subissato di fischi a quelle in abbonamento. Per quanto mi riguarda è stata però, fino ad ora, la produzione che nella sua globalità più mi ha coinvolto ed emozionato.
Quali rischi o possibilità sente nel passaggio da Verdi a Puccini, magari in vista di affrontare parti come quelle di Des Grieux e Calaf?
Questo è un argomento che affronto con molta attenzione e anche cautela. Ho avuto modo di sperimentare come il canto verdiano sia un balsamo per le mie corde, mi ci sento comodo e la mia voce trova in esso la sua naturale espansione. Per Puccini non è la stessa cosa. Infatti accetto le parti con parsimonia e, per ora, solo Pinkerton e Cavaradossi; Des Grieux e Calaf verranno al tempo giusto.
Sente il repertorio verista come un rischio (ovviamente penso a parti molto note, come quelle di Chénier, Turiddu, Canio e Loris) o un importante e possibile sviluppo futuro per il suo strumento vocale?
Con ogni probabilità sono parti che in un futuro potrei includere nel mio repertorio, sino ad ora ho detto no a offerte di Chénier, Pagliacci e Tabarro e penso che continuerò a cantare ancora molto Verdi prima di avvicinarmi al verismo.
Cosa ritiene sia più importante nella costruzione di una carriera?
Penserebbe che sono retorico se citassi l’esortazione “conosci te stesso”? Direi che la base della costruzione di una carriera si possa fondare proprio su questa massima: la conoscenza del nostro strumento, dei suoi punti di forza e anche dei suoi limiti è il fondamento per sviluppare una carriera. Poi viene lo studio e l’approfondimento continuo e costante, senza una corretta respirazione ed una base solida della tecnica di canto non ci potrà essere una carriera lunga. E infine la scelta del repertorio, che deve essere fatta tenendo sempre in evidenza le caratteristiche naturali della voce. I vecchi maestri insegnavano che la voce è come una coperta, se la tiri troppo su a coprirti la testa ti scoprirai i piedi e viceversa. Un ruolo, per essere ben cantato, ci deve stare comodo in ogni parte della sua tessitura. Le forzature in zona acuta, oppure gonfiare e scurire la voce artificialmente per dare un colore drammatico del quale la natura non ci ha dotato, non contribuiscono a mantenere una voce sana. Basta andare a ritroso nel tempo per vedere esempi di artisti che hanno concluso la carriera con la voce pressoché integra dopo trenta o quaranta anni di palcoscenico, o altri che si sono ritirati dopo dieci. Si tratta di scelte diverse, purché la scelta sia consapevole.
Quali saranno i teatri che l’accoglieranno maggiormente in futuro e in quali di questi farà debutti in nuove parti?
Nell’immediato futuro ci sarà più Francia (nella prossima stagione, Manrico nel Trovatore a Saint-Etienne e Pinkerton all’Opéra di Nizza), Germania e Spagna che non Italia. Fra gli altri impegni sono stato invitato ancora al Liceu per un importante debutto verdiano che sto preparando da tempo e soprattutto potrò realizzare un desiderio che fino a poco tempo fa mi sarebbe stato difficile anche solo da immaginare, canterò con un’artista immensa che riesce a toccare le corde del mio intimo, Ermonela Jaho. Ringrazio la vita per queste meravigliose opportunità.
Chi è Antonio Corianò fuori dalle scene?
Difficile distinguere il fuori dal dentro la scena nella vita di un artista lirico; la nostra è una professione che assorbe totalmente e ci richiede di avere sempre un occhio di riguardo per il nostro corpo, che è il nostro strumento di lavoro. Direi che sono un uomo del mio tempo, attento alla realtà che mi circonda e che vive pienamente la vita con la convinzione che valga la pena di essere vissuta, sempre, anche perché non sappiamo cosa ci si può aspettare dietro l’angolo. Mi pongo degli obiettivi e mi impegno per raggiungerli, anche se non sempre ci riesco. Sono un uomo che non ha mai smesso di sognare, neppure quando vedeva le porte che gli si chiudevano in faccia. Credo che la volontà e la perseveranza siano le qualità che più mi connotano, ma ho anche le mie fragilità e, fra queste, la difficoltà che provo spesso nel tenere sotto controllo il mio istinto, infatti i guai arrivano quando prende il sopravvento. Per fortuna non sono solo nella vita, la condivido da anni con il mio compagno che segue da vicino la mia professione e con il quale mi confronto continuamente. Quando sono in palcoscenico, anche durante le prove, io so che un orecchio ed un occhio attenti mi seguono dalla platea e questo contribuisce a darmi più equilibrio. Volendole dire di più, il mio compagno è il mio “testimone”. Cito e condivido appieno il pensiero del professor Galimberti quando sostiene che la categoria della testimonianza sia molto importante perché noi, in tutte le cose che facciamo, abbiamo bisogno che qualcuno ci guardi; se non ci guarda proprio nessuno si fanno le cose perché le si sa fare, ma non c’è l’anima dentro. Il pubblico che ci segue non parla un linguaggio tecnico, ci chiede emozioni e solo quello che parte dal cuore dell’artista arriva al cuore del pubblico. Quando io sento di aver toccato il cuore del pubblico, solo allora mi sento appagato.