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Anna Netrebko – Verismo (Deutsche Grammophon CD)

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E’ innegabile come, negli ultimi anni, la vocalità di Anna Netrebko, soprano russo di fama internazionale, abbia subito una modifica radicale, virando verso una maggiore drammaticità e consistenza rispetto agli esordi: molta era, quindi, la curiosità per il suo nuovo disco edito da Deutsche Grammophon, Verismo. In un percorso che si snoda in sedici tracce audio, la Netrebko affronta in questo CD differenti eroine dei melodrammi di Giacomo Puccini, compositore oramai a lei caro e congeniale, come dimostrato dalle numerose recite di Manon Lescaut cantate con successo a Roma, Vienna e Salisburgo (e che, prossimamente, interpreterà a Mosca e New York), e di altri operisti della Giovane Scuola, quali Umberto Giordano, Ruggero Leoncavallo, Alfredo Catalani e Francesco Cilea.
Nell’album emergono tutti i pregi e i difetti del soprano: voce rigogliosa e pastosa, ricca di armonici, morbida e abbastanza omogenea nell’emissione, di colore caldo e vellutato, sfolgorante e luminosa in acuto, ben tenuta nei filati e piuttosto precisa nei fiati, appassionata e dinamica nel fraseggio. Accanto a tali qualità si riscontrano, però, anche una dizione a tratti approssimativa e non sempre nitida ed un registro grave a volte opaco e intubato.
Il disco si apre con l’aria di sortita della primadonna dall’Adriana Lecouvreur di Cilea, “Io sono l’umile ancella”, cesellata da suggestive mezzevoci e suoni cristallini e conclusa da un prolungato, arioso la bemolle ma inficiata, in alcuni punti, da una pronuncia sbrigativa e poco a fuoco. Segue “La mamma morta” da Andrea Chénier di Giordano, probabilmente il brano più riuscito dell’intero album: interpretata con pathos e struggente drammaticità, supportata da un fraseggio estremamente intenso e variegato (valga, a titolo esemplificativo, il soffio di voce con il quale dice “caddi malata”), ne scaturisce una Maddalena di Coigny a tuttotondo, fortemente appassionata e sanguigna (ruolo che dovrebbe debuttare in occasione della prima scaligera del 7 dicembre 2017, diretta da Riccardo Chailly).
A seguire, due donne pucciniane, Cio-Cio-San con la celeberrima “Un bel dì vedremo” da Madama Butterfly e Liù con l’accorata supplica “Signore, ascolta!” da Turandot: in entrambi i casi si percepisce il feeling fra la cantante e le partiture del lucchese. Se, nel primo caso, delinea una geisha fiduciosa e decisa, vocalmente solida e matronale, nel secondo conferisce alla figura della schiava dolcezza e languore, cantando con estremo lirismo e conferendo un’aura di luce perlacea all’aria: l’auspicio è che possa presto indossare i panni di Liù in teatro.
Con la quinta e la sesta traccia ritorniamo nell’ambito della Giovane Scuola, più precisamente nel mondo di Leoncavallo con la meditazione di Nedda da Pagliacci “Qual fiamma avea nel guardo […] Stridono lassù” e in quello di Catalani con “Ebben? Ne andrò lontana” da La Wally. La Netrebko delinea qui una Nedda sensuale, dalla voce calda e piena, solare, parecchio espressiva, eterea nei trilli che precedono la ballatella “Stridono lassù” e salda negli acuti; da evidenziare qualche suono sordo nei gravi. Eroica l’interpretazione di “Ebben? Ne andrò lontana”, fluida e trasparente nella resa, contraddistinta da nitidezza nel fraseggio e da acuti cristallini.
Meno felice il risultato con “L’altra notte in fondo al mare” da Mefistofele di Arrigo Boito: nonostante le buone intenzioni, una vocalità pur sempre importante e l’estrema facilità all’acuto, bisogna sottolineare la presenza di numerose note basse intubate, poco gradevoli all’ascolto. L’ottava traccia del programma è “Suicidio!” da La Gioconda di Amilcare Ponchielli, un brano davvero impegnativo che l’artista affronta con piglio deciso e propriamente verista, ma a tratti troppo enfatico e veemente, in special modo nell’incipit: sicuramente perfettibile.
Dalla traccia nove si ritorna definitivamente nel panorama pucciniano. La celebre preghiera “Vissi d’arte, vissi d’amore” da Tosca vede un’interpretazione matura, vocalmente lussureggiante, vigorosa nel declamato, da vera diva quale è Floria Tosca. Segue la micidiale aria d’esordio della Principessa di gelo in Turandot, “In questa reggia”: qui la Netrebko riesce a districarsi più che bene, avendo dalla sua uno strumento vocale di notevole peso, cercando di variare con intelligenza il fraseggio e le dinamiche (il rischio è che si cada nella monotonia, dando rilevanza soltanto all’imponenza della voce e cantando tutto il pezzo in forte) ed emettendo robusti acuti, impetuosi come sciabolate. Conclusione tutta nel nome di Manon Lescaut, con “In quelle trine morbide” dal II Atto e il IV Atto, eseguito integralmente assieme al tenore azero Yusif Eyvazov, compagno di palcoscenico e di vita di Anna Netrebko. Nel brano “In quelle trine morbide” è percepibile una voluttà mai sfacciata ma vaporosa e leggera, venata di una sottile nostalgia, ben espressa da una dizione curata e da sonorità madreperlacee. Intenso e potentemente drammatico il IV Atto, dove il soprano viene a capo con acume della densità della parte, senza mai forzare le proprie caratteristiche vocali ed espressive, evitando abilmente effetti scontati da tragédienne che sarebbero potuti scadere nel caricaturale, ed optando invece per un’interpretazione rifinita e di forte impatto emotivo. A tale riguardo, basterebbe ascoltare, per esempio, come viene resa “Sola, perduta, abbandonata”, alternando oasi maggiormente liriche a scatti infuocati di disperazione, oppure l’ultima parola del libretto, “muore”, pronunciata in un anelito che si spegne, come la vita della protagonista. Accanto a lei il Des Grieux (e il Calaf nella sortita della sanguinaria Turandot) di Yusif Eyvazov: corretto musicalmente, in possesso di una voce tenorile voluminosa, saldo in acuto (nonostante qualche suono nasale), ma affetto da un persistente vibrato e a volte generico e poco fantasioso nel porgere la frase.
L’Orchestra ed il Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, diretti da Antonio Pappano, accompagnano in maniera impeccabile la diva russa in questo viaggio tra i meandri del Verismo, grazie a sonorità turgide, di puro smalto, screziate nelle nuances timbriche, e ad una lettura energica e di spiccata teatralità, scattante nei tempi.
Il disco è corredato di un libretto con un breve saggio di Renauld Loranger in francese, inglese e tedesco, e con i testi delle arie in lingua originale (e con relativa traduzione in tedesco e inglese). Curata la veste grafica, con fotografie dal sapore dark (a onor del vero poco verista).

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