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Vienna, Theater an der Wien – Les Martyrs (con Osborn, Mantegna, Olivieri)

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Una rarissima opportunità di vedere il “rifacimento” dell’infelice Poliuto che Donizetti mai ebbe modo di vedere su un palcoscenico, viene offerta dal celebre Theater an der Wien, chiuso per lavori di restauro e la cui sede è attualmente il vicino MuseumsQuartier. Un’operazione culturale di altissimo interesse e anche di successo, purtroppo contrastato da un allestimento assurdo, buato alla prima e poi, come capita sempre più spesso, accettato con rassegnazione cristiana (vista l’opera è il caso di dirlo, ma il martirizzato era il povero Donizetti, che non se lo meritava).

Ora, è chiaro che ogni nuova produzione è un rischio e può piacere o meno, ma dovrebbe avere almeno un senso. Senza traduzione (per fortuna il tedesco lo leggo e lo capisco), durante la sinfonia ci viene spiegato che il personaggio di Paulina rimanda ad Aurora Mardiganian, la donna sopravvissuta al genocidio armeno del 1915, e ai “diversi” di tutte le epoche, e che questa è una opera-Klage, ossia un lamento (io conoscevo Das klagende Lied, che però non è un’opera). Nonostante il titolo, Les Martyrs, qui pare che la donna sia più importante, perché alla fine tutti mostrano al pubblico delle T-Shirt con stampato il nome di una martire (fin dove ho potuto leggere, tutti cognomi armeni). Non me ne vogliano le signore, ma a nessuno verrebbe in mente di fare di Edgardo il protagonista della Lucia. O forse sì? magari sto dando generosamente un’idea a qualche bravo regista.
Nella fattispecie, il regista era Cezary Tomaszewski, che si serviva delle scene orrende e dei costumi atroci, specie quelli del proconsole e del governatore, di Aleksandra Wasilkowska. Siccome, ahimè, c’era anche il balletto (con i gladiatori trasformati in mimi piuttosto provocanti grazie alla coreografia di Barbara Olech), la lista delle scemenze rischia di diventare lunga. Mi fermo qui.

Se la produzione si fosse limitata alla forma concertante, l’esito sarebbe stato di tutto rispetto. Pare che se ne farà un video, o che passerà in tivù, sicché la si potrà vedere o, magari, sentirne solo l’audio. Jérémie Rohrer è un maestro molto apprezzato nelle terre francofone. Non ha fama di esperto di belcanto, ma considerando la tremenda acustica della sala, e a parte il fatto di non controllare sempre il volume dell’orchestra e di lanciarsi in ritmi vertiginosi – vedi la sinfonia – che possono banalizzare la musica del bergamasco, ha fatto un lavoro decoroso con l’ORF (Orchestra Sinfonica della Radio Viennese). Molto bene il coro Arnold Schönberg, formazione di chiara fama (istruita da Erwin Ortner), anche se il francese non era sempre comprensibile.

Callisthène è qui una parte minore ed è un peccato perché Nicolò Donini (piantato su tacchi micidiali e movendo a dovere un vistoso ventaglio di piume bianche) ne ha offerto una buona interpretazione. Corretto il Néarque di Patrick Kabongo; interessante, ma senza il registro grave che la parte richiederebbe, il Félix di David Steffens. Nelle parti di fianco si esibivano Kaitrin Cunningham e Carl Kachouh (voce che si vorrebbe ascoltare in parti di maggior rilievo). Bravi mimi e ballerini, che facevano bene quel che loro veniva chiesto.

Ma veniamo al dunque. Poliuto per Nourrit o Polyeucte per Duprez, è chiaro che senza tre fuoriclasse questo titolo non esiste, né in italiano né in francese. E qui, udite udite, c’erano degli ottimi cantanti di tecnica e stile ferrati che poi cercavano – come potevano – di dare un senso a quanto dicevano (riuscendoci facilmente) e facevano (purtroppo i miracoli non abbondano di questi tempi).
Roberta Mantegna mi aveva fatto un’ottima impressione nel suo debutto scaligero come Imogene del Pirata belliniano, che non si era ripetuta a quel livello nel  Trovatore a Macerata. Questa Pauline invece, al netto di qualche grave debole, aveva tutte le carte in regola quanto ad acuti, sopracuti, messe di voce, agilità – non molte – esibiti in arie, duetti, terzetti e concertati, reggendo il peso – anche scenico – della parte in modo egregio.
Quando si parla di John Osborn si sa che ci si trova davanti a una garanzia di belcanto. Tutto il suo lavoro è stato impeccabile (ha solo mostrato un po’ di prudenza nell’amministrare il volume nella grande scena dove rovescia la statua di Giove –un mostriciattolo che se lo meritava – assolutamente giustificata), ma l’aria e la cabaletta ‘nuove’ dell’atto terzo risultavano esemplari. E poi c’era quel Sévère che con il suo arrivo fa esplodere una situazione che finisce per schiacciarlo: malmenato dalla regia, vestito o svestito in modo totalmente assurdo, Mattia Olivieri ha dimostrato ancora una volta la sua classe di cantante: più che l’aria e la cabaletta, hanno impressionato il grande duetto con Pauline, con delle mezzevoci seducenti – per esempio sul ‘douleur’ che finisce la prima parte della pagina – il terzetto dell’atto quarto e gli interventi in tutti i concertati, dove non sempre è facile sentire una voce grave. Notevole anche la sua statura d’interprete, nonostante la regia facesse di tutto per farlo risultare ridicolo.
Il pubblico, che non gremiva la sala ma era comunque numeroso, ha applaudito con garbo molto opportunamente, si è scaldato man mano che passavano gli atti e alla fine ha premiato tutti con vere ovazioni.

Siccome è stata la prima volta che vedevo Les Martyrs (e per calcolo di probabilità quasi sicuramente anche l’ultima), dopo ben tre versioni di Poliuto (due con la meravigliosa Paolina di Fiorenza Cedolins e una con il grandissimo Poliuto di Gregory Kunde, e colgo l’occasione per ringraziare entrambi), vorrei riaffermare la validità – a mio modesto parere – del giudizio di William Ashbrook (Donizetti. Le Opere. Edit. Musica, Torino, 1987, p.197): “Les Martyrs sono più grandiosi di Poliuto, ma questa loro ampiezza è anche più vuota e paradossalmente più ingombra rispetto a quella dell’originale italiano. Indubbiamente Les Martyrs hanno maggiore consistenza, ma nello stesso tempo meno interesse umano in confronto al più impulsivo Poliuto. Salvo il prezioso terzetto che conclude il primo atto della partitura francese, tutta la musica più memorabile è comune ad entrambe le versioni. Un cultore dei valori del melodramma romantico preferirà il Poliuto; un mistico apprezzerà di più Les Martyrs.” Traduzione italiana straordinaria di Luigi Della Croce. Vorrei solo sapere se in giro è rimasto ancora qualche “mistico”.

Vienna, 25 settembre 2023

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