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Verona, Arena Opera Festival 2023 – Aida

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Ambientati non importa dove, non importa quando, spiazzanti e impregnati di mistero, gli allestimenti di Stefano Poda sono finestre aperte sull’enigma e chiedono, per avere un senso, la disponibilità e la pazienza di chi li guarda e tenta di decifrarli. Così è anche per la nuova produzione di Aida che ha aperto il 100° Festival dell’Arena di Verona. A Poda non interessano le convenzioni della tradizione, ma nemmeno le provocazioni degli spettacoli attualizzati, e tanto meno le riletture, oggi in voga, che propongono il capolavoro verdiano in chiave anti-occidentale. L’opera in cui Verdi – disilluso dalla storia – guarda al grand-opéra e contemporaneamente crea, attraverso sonorità rarefatte, momenti di intimismo e sentimenti profondi, sembra diventare, per Poda, il paradigma per riflettere sulla nostra civiltà senza filtri ideologici. Ma è proprio così?

La scena, come in tutti gli spettacoli del regista, scenografo, costumista, coreografo e light designer trentino, è concepita come una installazione d’arte. A dominarla, su una piattaforma riflettente inclinata, è una grande mano meccanica di metallo, in grado di articolare le falangi, circondata da tante mani più piccole infilate su lance. La simbologia e il significato delle mani possono essere molteplici: associate al potere regale e alla forza, alludono ora alla costruzione ora alla distruzione, vengono utilizzate per eseguire gesti sacri, ma anche per uccidere. Sulle gradinate di destra è adagiata una colonna greca spezzata, sulla sinistra i rottami di macchine avveniristiche: sono le conseguenze tragiche delle guerre di ogni tempo, dell’utilizzo nefasto della tecnologia. Arcaico e futuribile, antico e postmoderno si intrecciano in una cornice dove la simbologia egizia, quasi marginale, è affidata a piramidi virtuali appena accennate con raggi laser, alle fogge di qualche copricapo o alle decorazioni dei costumi, alcuni fastosissimi e luccicanti, che con gusto del sincretismo stilistico ammiccano anche ad alcuni marchi della moda made in Italy. Nel terzo e quarto atto, figurano poi delle piccole piramidi trasparenti, che ricordano quella del Louvre.

Pure in questa Aida ritorna inoltre la componente spiccatamente liturgica tipica degli allestimenti di Poda. Che sono, a tutti gli effetti, delle liturgie laiche ispirate alla messa in latino, organizzate con gesti rituali, officiate da personaggi dall’incedere lento e ieratico, cariche di stratificazioni simboliche ed evocazioni misteriose, avvolte come si conviene da nuvole di fumo/incenso. L’impostazione è ricorrente e l’impressione è che il libretto e la trama, per Poda, siano secondari, poco più di un pretesto su cui lavorare. Contano soprattutto le suggestioni musicali di ogni singolo quadro e le conseguenti visioni che, attraverso simbolismi qualche volta decifrabili, molto più spesso criptici, si tramutano in immagini sceniche. Alcune di quelle che costellano l’Aida areniana – dall’obitorio delle mummie che apre il secondo atto alle coreografie che accompagnano l’abbagliante e un po’ confusa scena del trionfo, alla presenza ossessiva dei mimi-danzatori che attorniano i protagonisti anche quando questi dovrebbero stare soli in scena – sono chiare e comprensibili (forse) solo per il regista. Se qualche effetto è di per sé suggestivo, lo spettacolo finisce per cadere nell’autoreferenzialità e nell’interscambiabilità delle situazioni sceniche, tanto che l’impianto potrebbe essere utilizzato anche per altri titoli del repertorio operistico. Va da sé che l’impostazione visionaria e l’ossessivo simbolismo di questa lettura fredda e cerebrale coincidono raramente con la drammaturgia e il realismo di Verdi. Le visioni sono disposte strategicamente sulla scena in modo da innescare relazioni non consuete tra di loro, aperte ad allusioni e interpretazioni molteplici. Di certo, non si tratta di un allestimento in linea con la tradizione areniana e forse nemmeno con i gusti della grande platea televisiva. Ma tant’è. Questa è la cifra di Poda, e questo è da sempre il suo teatro: prendere o lasciare.

Passando all’esecuzione, Marco Armiliato dà la sensazione di dover lottare contro uno spettacolo ingombrante e non facile da gestire dal podio. Trattandosi di un direttore che sa calarsi in modo appropriato nella realtà culturale del nostro melodramma ottocentesco, riesce comunque a garantire la tenuta complessiva con correttezza ed efficienza, anche se con una certa genericità e parsimonia sotto il profilo dei colori e delle gradazioni dinamiche. Non siamo di fronte a una lettura approfondita e personale, capace di rendere in modo accattivate il multiforme e contrastato affresco dell’opera, ma a una conduzione che cerca di portare a casa la serata con professionalità e un adeguato sostegno delle voci.

Aida è Anna Netrebko, che torna in Arena dopo aver sostenuto il ruolo lo scorso anno nell’allestimento di Zeffirelli. La sensazione è che il personaggio fosse più a fuoco in quell’occasione e che – forse anche con il concorso dell’impostazione registica – l’interprete qui non renda a tutto tondo la duplicità del carattere di Aida: questa volta, più che la tempra della principessa altera, delineata con vocalità ancora solida ma non sempre omogenea e a tratti artefatta, emerge il lirismo della schiava remissiva. Il soprano russo conquista nei momenti di ripiegamento intimo, negli abbandoni amorosi, negli accenti toccanti del duetto finale e, soprattutto, nelle emissioni morbide e nelle lunghe arcate vocali di “O cieli azzurri”, culminanti con un do in pianissimo da vera fuoriclasse.
Discontinua la prova di Yusif Eyvazov, forse in non perfetta forma. Il timbro poco gradevole di per sé non è un problema: in altre occasioni, il tenore azero lo faceva subito dimenticare grazie alla buona tenuta vocale e alla varietà del fraseggio. Qui ci sono sempre belle intenzioni espressive, il Si bemolle che conclude “Celeste Aida” viene in parte sfumato, il duetto finale dell’opera lo vede esibire apprezzabili mezzevoci, tuttavia gli acuti mancano a volte di squillo e l’interprete nei momenti eroici difetta di incisività.
Nei panni di Amneris non convince Olesya Petrova: la vocalità risulta timbrata e sonora negli acuti, ma nel registro medio-grave è disomogenea e poco consistente; l’interpretazione è inoltre esteriore, a tratti in odore di verismo, e la dizione poco accurata. Delude l’Amonarso di Roman Burdenko, di cui si erano lette meraviglie, soprattutto dopo l’Otello triestino dello scorso novembre. Fin dall’inizio esibisce una voce opaca in basso, incerta nell’emissione, un fraseggio e un accento generici. All’attivo ha qualche momento più timbrato nel duetto con Aida del terzo atto (“Non sei mia figlia, dei faraoni tu sei la schiava”).
Fra i due bassi, spicca il Re sonoro, corposo e ben fraseggiato di Simon Lim. Autorevole per stile ed espressione, ma meno incisivo vocalmente, il Ramfis di Michele Pertusi. Corretta la sacerdotessa di Francesca Maionchi, ottimo il messaggero di Riccardo Rados. Buona la prova del coro preparato da Roberto Gabbiani.
Il pubblico ha applaudito tutti con calore, tributando alla fine ovazioni a Netrebko, Eyvazov, Petrova.

Arena Opera Festival 2023
AIDA
Opera in quattro atti
Libretto di Antonio Ghislanzoni
Musica di Giuseppe Verdi

Il Re Simon Lim
Amneris Olesya Petrova
Aida Anna Netrebko
Radamès Yusif Eyvazov
Ramfis Michele Pertusi
Amonasro Roman Burdenko
Un messaggero Riccardo Rados
Una sacerdotessa Francesca Maionchi

Orchestra, Coro, Corpo di ballo e Tecnici dell’Arena di Verona
Direttore Marco Armiliato
Maestro del coro Roberto Gabbiani
Regia, scene, costumi, luci, coreografia Stefano Poda
Assistente regia, scene, costumi, luci, coreografia Paolo Giani Cei
Coordinatrice azioni di regia figuranti minori Maria Elisabetta Candido

Nuova produzione Fondazione Arena di Verona
Verona, 16 giugno 2023

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