Il Teatro Regio di Torino inizia una stagione 2023-2024 nel corso della quale si succederanno molti titoli di Giacomo Puccini in omaggio all’anniversario della morte, ma regala anche una grande sorpresa per l’inaugurazione, con una scelta di alto valore culturale e artistico, diremmo anche coraggiosa se si pensa che di grand-opéra in Italia se ne ascoltano davvero pochi. Se non erriamo, l’ultima esecuzione italiana de La Juive di Fromental Halévy risale a diciotto anni fa, quando fu la Fenice di Venezia a metterla in scena con un allestimento proveniente dalla Wiener Staatsoper del quale si possiede anche un video e che vide come protagonista, nei panni di Éléazar, un iconico Neil Shicoff. Di quest’opera, che almeno all’estero ha goduto negli ultimi anni di maggiori attenzioni da parte dei teatri, si ricordano diverse esecuzioni, fra le quali quella di Parigi del 2007, diretta da Daniel Oren, che della partitura è un estimatore e non a caso è stato chiamato a dirigere la presente edizione torinese, o come le edizioni di Monaco (2016), con Roberto Alagna, e la più recente di Ginevra (2022), con John Osborn. La scelta quindi di puntare su un titolo così impegnativo in termini di risorse da mettere in campo, oltre che d’indubbia difficoltà esecutiva, va riconosciuto come merito al Regio e permette di rimeditare su un’opera che trovò in Halévy e poi, subito dopo, in Meyerbeer, gli apripista di quel grand-opéra che furoreggiò sulle scene parigine, quasi un passaporto dei gusti teatral-musicali della borghesia del tempo. Non soffermiamoci su ciò che il lettore già ben conosce, dilungandoci nel descrivere quelle che sono le caratteristiche canoniche che accomunano questo titolo al genere al quale appartiene, ma notiamo da subito come, pur nella magniloquenza della sua struttura, La Juive mostri, nell’articolazione dei sui grandi tableaux e nei coup de théâtre che contraddistinguono la sua trama, una varietà di strutture formali e musicali che incontrarono addirittura i favori di Richard Wagner, notoriamente mai tenero nei suoi giudizi espressi contro Meyerbeer, come di Gustav Mahler, che lodò incondizionatamente quest’opera. Ciò che colpisce in essa, al di là appunto delle caratteristiche che siglano la sua appartenenza al grand-opéra, sono l’asciutta e severa concisione drammatica, quasi un ossimoro se messo in relazione alla lunghezza dell’opera (amputata di alcune parti nell’esecuzione torinese, come peraltro in tutte le più recenti edizioni) e alla sua stessa grandiosità, così come la sua capacità di trasformare i quadri di massa in scene di vita pulsante, corali come individuali, tanto che alcuni personaggi assumono uno spessore che non sempre si riesce a cogliere in altri grand-opéra che badano più agli effetti che alla sostanza.
La vicenda stessa ci aiuta a comprendere come gli aspetti della dimensione pubblica si intreccino a quelli privati con una sapienza drammaturgica, ancora di modernissimo impatto teatrale, dovuta al ben congegnato libretto di Eugéne Scribe. Il conflitto fra cristiani ed ebrei, sullo sfondo storico del Concilio Ecumenico di Costanza del 1414, è lo spunto ambientale per un soggetto di esacerbati odi religiosi e rovinosi amori per effetto di una covata vendetta. Al centro della vicenda abbiamo il contrasto fra due uomini di inconciliabile credo diverso: il ricco ebreo gioielliere Éléazar, padre putativo di Rachel, cresciuta alla religione ebraica ma in realtà figlia naturale del cardinale Brogni, nata prima che il prelato cattolico prendesse i voti e poi perduta in un incendio a Roma insieme alla moglie. A tale rivalità per motivi religiosi si affianca la passione impossibile fra Rachel e il principe Léopold, quest’ultimo per di più infedele perché legato alla principessa Eudoxie, nipote dell’imperatore. Grande colpo di scena durante il banchetto imperiale del terzo atto, quando Rachel rivela la passione che ha per Léopold e che li condanna entrambi: lei perché da ebrea non può unirsi per legge a un cristiano, pena la morte; lui perché, oltre a essere cattolico, tradisce pure la promessa sposa. Poco contano le invettive di Éléazar contro gli iniqui cristiani. Vengono tutti arrestati e destinati alla condanna pronunciata dal concilio. Rachel si sacrifica e promette a Eudoxie di salvare il principe dichiarandolo innocente, mentre il cardinale Brogni si adopera per salvare Éléazar e sua figlia pur che il gioielliere ebreo accetti di rinnegare la sua fede. Alla proposta, sdegnosamente rifiutata, segue l’inevitabile supplizio di padre e figlia, costretti a buttarsi in un pentolone di acqua bollente. La donna è la prima ad andare incontro al suo destino, seguita subito dal padre adottivo che rimugina vendetta e, in un finale in odore di Trovatore, svela in punto di morte la vera identità della figlia perduta in giovane età dal rivale.
Dopo aver ascoltato l’edizione torinese della Juive, si rimane colpiti da un tema oggi più che mai attuale, oggetto di accesi dibattiti anche al tempo della prima esecuzione dell’opera nel 1835, quello del conflitto interreligioso intrecciato alla lacerazione interiore di personaggi come Éléazar e Rachel, specchio di una individualità ben scolpita e tradotta in ariosi di indubbia attrattiva, che vede soprattutto la figura del vecchio ebreo stagliarsi su tutti, facendone una grande personaggio dipinto nella sua duplice immagine contradditoria di uomo da un lato corroso dall’odio verso i cristiani e dal senso di esclusione dettato dal suo credo religioso, dall’altro dall’essere padre putativo premuroso. Un personaggio che, pur nella sua ambigua negatività, assurge a una dignità quasi tragica. Ecco perché il leggendario Adolphe Nourrit, che fu il primo interprete di Éléazar nonostante la sua presenza fosse inizialmente prevista per i panni di Léopold, rimase colpito dalle possibilità che venivano offerte da una parte non di tenore amoroso bensì di padre tormentato e depositario di un segreto terribile (svelato solo in punto di morte, quando si troverà ai piedi della caldaia dove verrà bollito vivo dopo che lo stesso destino è toccato a Rachel), per di più ricca di passi declamati e di ariosi di grande intensità emotiva, che andavano ben al di là dei consueti cliché della retorica tenorile romantica, tanto da attrarre l’attenzione anche di tenori drammatici di stampo novecentesco che fecero propria questa parte, a partire dal grande Enrico Caruso, congedatosi dalle scene del Met proprio con quest’opera.
Ciò premesso, dobbiamo al Teatro Regio di Torino l’intuito di aver chiamato a Torino un tenore che, dopo anni di lunga carriera, svolta nel repertorio belcantistico, è passato con successo alla corda di tenore drammatico regalando interpretazioni stupefacenti per tenuta vocale commisurata a mezzi vocali che devono per di più fare i conti con un’età avanzata e una carriera lunga, costellata di continui successi. Oggi Gregory Kunde, che per la prima volta sostiene sulla scena la parte di Éléazar, offre una prestazione doppiamente miracolosa, prima per le suddette ragioni di tenuta vocale, poi perché induce a riflettere sullo stile vocale di colui che ne fu primo interprete, quel Nourrit che, dopo aver preso parte alla creazione di alcune opere parigine di Rossini, divenne un campione del nascente grand-opéra. Nourrit conosceva bene l’arte del canto italiano ed era, nella sostanza, un tenore contraltino, sebben fosse imbevuto di nozioni stilistiche proprie alla scuola francese del suo tempo derivanti dalla declamazione di involo classicheggiante, in cui la parola regola l’espressione del canto e determina fraseggi anche solenni ed eroici, eppure sorvegliati dallo stile francofono. Ecco perché Kunde, che nella sua lunga carriera è passato dal canto acrobatico rossiniano a quello romantico e poi addirittura a quello verista, filtra tutte queste esperienze e approda a una interpretazione illuminante perché spoglia dalle accentazioni drammatiche e dalle connotazioni veriste che di questo ruolo sono state date nel Novecento. Nella sua prova si coglie il ritorno all’origine della vocalità di Nourrit e, seppure il timbro oggi appaia un po’ rugginoso e non più puro, la voce non ha oscillazioni, sa flettersi ad arte ed è abile nel fondere le esigenze della declamazione con quelle della dolcezza lacerata. Lo fa prima durante il convito pasquale del secondo atto, intonando con eleganza la cavatina “Dieu, que ma voix tremblante”, dove subito dimostra di saper cantare piano e di cesellare ogni frase con gusto e conoscenza del canto sul fiato.
Lo si ammira anche nelle scene in cui, unitamente alla credibilità dell’interprete, si coglie la sottigliezza di un fraseggio declamatorio scolpito sulla parola, come quando si scaglia contro Léopold (“Chrétien sacrilège”), o quando, nel duetto con Brogni, rifiuta sdegnosamente di abiurare la sua fede. Subito dopo, giganteggia in un “Rachel, quand du Seignuer” carico di dolore intriso d’intima introspezione, affrancato da ogni muscolosità vocale fine a se stessa, avvolto in una guaina sonora trepidante, tutta concentrata sul peso piscologico del personaggio in rapporto agli eventi che determinano il suo conflitto di uomo diviso fra l’incrollabile fede ebraica e il momento di profonda, quasi piangente commozione affettività provata per la figlia che ha cresciuto. Il suo è dunque un canto generoso ma raccolto, dove addirittura i silenzi hanno valenza espressiva, dove le accensioni in acuto sono cariche di una fibrillazione luminosa, ma è anche in grado di risolvere senza affanni la temibile cabaletta che segue all’aria, spesso omessa in alcune esecuzioni (sarebbe un torto farlo, perché senza di essa non si comprende il mutamento emotivo di un padre che sceglie, dopo un momento di dubbio cui segue una esaltazione sacrificale, di seguire il martirio della figlia), qui risolta con slancio teso e persuasivo. Tutte qualità che lo fanno da subito entrare nella storia dell’interpretazione di questo ruolo e lo pongono su un livello che, per specifici meriti stilistici e artistici, da solo giustifica la ripresa di questo titolo.
Il resto della compagnia di canto non regala pari emozioni assestandosi, comunque, su un ottimo rendimento. Mariangela Sicilia, alle prese con una vocalità “anfibia” come quella di Rachel, in bilico fra mezzosoprano e soprano, cucita sulle caratteristiche della prima interprete della parte, Cornélie Falcon, è nella sostanza un soprano lirico, oggi fra i migliori in Italia, dalla voce luminosa e ben proiettata, ma priva di quella carnosità timbrica che manca a un canto che tuttavia la vede imporsi nell’aria del secondo atto, “Il va venir”, liricizzata smorzando i suoni con ricchezza espressiva e suggestivi pianissimi e poi, sempre per gli stessi meriti, nel momento in cui si inginocchia supplichevole al padre in “Pour lui, pour moi mon père, j’invoque votre amour” implorandolo di acconsentire alla sua unione con Léolpold. Insomma canta splendidamente e in virtù della musicalità riesce dunque a disimpegnarsi al meglio anche nelle pagine di maggiore impeto declamatorio, come quando al culmine del terzo atto svela la tresca amorosa con Léopold giocando sull’accento anche senza possedere le bruniture timbriche richieste nei centri e nei gravi.
Riccardo Zanellato già conosceva la parte del Cardinale Brogni per averla cantata per l’opera delle Fiandre. La sua voce non risuona nel registro grave come una canna d’organo e con l’ampiezza della cavata sonora che richiede una pagina come “Si la rigueur”, eppure si fa valere per il canto morbido, l’eleganza del porgere e l’intelligenza con cui utilizza il fraseggio per compensare la mancanza di autorità vocale nelle scene in cui, come al termine del terzo atto, minaccia e maledice con insinuante perizia espressiva, assicurandosi un risultato complessivo artisticamente degno di nota.
Il soprano Martina Russomanno è una fascinosissima Eudoxie, dal timbro suadente. Nel secondo atto le mancano i trilli necessari per il terzetto da lei attaccato sul tema poi ripreso di “Ah! Dans mon âme”, eppure canta con finezza l’aria che apre il terzo atto, “Tandis qu’il sommeille”, e risolve con souplesse il successivo Bolero. Peccato che nelle scene in cui si confronta con Rachel, come nel duetto che apre il quarto atto, i timbri delle due cantanti risultino troppo simili per rendere, nella giusta dimensione espressiva, la rivalità fra le due donne.
Ottimo anche il tenore Ioan Hotea, che ben risolve la parte assai acuta di Léopold, a partire dall’impervia serenata “Loin de son amie”, cantata con pertinenza stilistica e garbo espressivo, poi nella bellissima frase del duetto con Rachel del secondo atto, “si ton amour me reste, je ne regrette rien!”, utilizza felpate emissioni di testa.
Ottime anche le parti di contorno, con Gordon Bintner (Ruggiero) e il bravissimo Daniele Terenzi (Albert), fino a Rocco Lia (L’araldo d’armi dell’imperatore e Un boia), Leopoldo Lo Sciuto (Un ufficiale dell’imperatore), Lorenzo Battagion (Un uomo del popolo) e Roberto Calamo (Altro uomo del popolo).
Su Orchestra e Coro del Teatro Regio, allo zenit della forma, quest’ultimo istruito benissimo da Ulisse Trabacchin e impegnato in una delle prove che confermano l’alto valore di questa compagine corale, veglia attenta e sempre concentrata la bacchetta di Daniel Oren, dai tanti meriti, primo fra tutti quello di far cogliere una tinta emozionale di impatto drammatico meditato e raccolto, utilizzando tempi assi larghi. Le pagine che hanno funzione cerimoniale ed esornativa non sono mai banali, come i cori che celebrano con intonazione rituale o desiderio di sacrificio l’inamovibile implacabilità del credo cristiano, ma è soprattutto il respiro drammatico a colorarsi di attese misteriose e soffuse, con una ricerca di tinte avvertite da subito, ascoltando l’Ouverture dove, nella sezione centrale, si preannuncia, quale motivo identificante del martirio, il tema della già citata cabaletta di Éléazar del quarto atto, quella in cui l’ebreo decide che la figlia adottiva debba morire con lui. Ed è subito da qui che comprendiamo come Oren abbia a cuore timbriche e sfumature adatti a vestire il fanatismo religioso che pervade l’opera e conduce alla morte dei due eroi come un dramma di strisciante e spietata incomunicabilità. Basta ascoltare alcuni accompagnamenti, come quello dell’aria di Brogni o quello delicatamente commosso offerto a Kunde per la sua pagina più famosa, per partecipare in musica al loro turbamento interiore e per far passare l’idea di come in quest’opera, per quanto lunga, la narrazione sia funzionale alla tragica commistura di ingredienti che la caratterizza.
Riserviamo le considerazioni finali al nuovo allestimento, grandioso ed è facile immaginare costosissimo, come sempre lo sono gli spettacoli che Stefano Poda firma come autore di regia, coreografia, scene, costumi e luci, nel caso specifico in linea con le esigenze di un grand-opéra. Solitamente i suoi contenitori scenici “tuttofare” sembrano installazioni artistiche per lo più decontestualizzate dal contenuto drammaturgico dell’opera messa in scena. Questa volta, a onore del vero, pur non rinunciando al tratto simbolico che è proprio alla sua estetica visiva, il regista italiano colpisce nel segno, anzi appare abbastanza chiaro nei suoi intenti e nel seguire la vicenda seguendo una forte idea di fondo che sostanzia uno spettacolo di indubbia suggestione. L’impianto scenico, che impiega ad ampio raggio i mezzi tecnici del palcoscenico del Regio, sia nell’utilizzo dei ponti mobili e di una piattaforma circolare girevole illuminata dal basso, come nella profondità davvero evidente della scena unica, mostra appunto un vasto contenitore fisso ma modulabile dalle pareti d’argento e un fondale che reca alla sommità un noto verso in latino dal De rerum natura di Lucrezio, “Tamtum religio potuit suadere malorum” (“a tanto male poté indurre la religione”), come un monito al sacrificio di tutte le vittime condannate dall’odio religioso. Al centro del fondale si staglia una croce dai bordi illuminati al neon, dal cui centro “animato” escono ondate di fumo o luci infuocate, attorno ci sono cadaveri intrecciati fra di loro a braccia aperte come fossero crocifissi, grondanti di sangue e sospesi a un muro. Le luci sono ricercatissime e all’inizio sembra che il colore bianco degli abiti semplici riservati agli ebrei siano in contrasto con quelli sontuosi e in diverse tonalità di rosso e nero-grigio del popolo dei cristiani.
Colpisce anche la scena del secondo atto, con l’abitazione di Éléazar che emerge dalle profondità del palcoscenico, immersa nella penombra con piedistalli di marmo nero sormontati da teche di cristallo illuminate, piene di gioielli che mostrano il mestiere svolto dell’ebreo nella sua abitazione. L’impianto scenico lascia spesso stupefatti e a sorprendere è soprattutto il gigantesco astrolabio ferreo formato da cerchi concentrici che si scompongono e girano su se stessi con calcolata sapienza ingegneristica, come fossero riflesso degli ingranaggi di un potere religioso oppressivo che regola le coscienze e ne determina meccanicamente l’agire, rendendole vittime di una aggressività furiosa, che non mira ad altro che a un calcolato percorso verso l’abisso della morte, evidente sia negli atteggiamenti della folla, sia nella rabbia tormentata di Éléazar. Eppure, dietro un impianto scenico tanto grandioso e figurativamente accattivante, c’è come si è detto una forte idea di fondo, quella di proporre un grande affresco che, come nota il regista, rappresenta “una cristianità dominatrice ma dilaniata dalla secolarizzazione, che ha distorto il suo messaggio originale”: quello della vita di Cristo. La figura del Salvatore appare infatti già sul finire del primo atto e diviene una costante per tutta l’opera. Nel terzo atto, la scena appare coperta da un gigantesco mantello in raso, ora rosso ora violaceo, arrotolato da mimi che si attorcigliano in danze (non coreografate ma qui intese con un’accentuata concessione fra corporalità e componente spirituale) e si raggruppano attorno a Éléazar e Rachel, come in un abbraccio mortale al momento in cui i due vengono condannati. In questo momento, quando appunto la sentenza di morte si avvicina per padre e figlia, il gioco di simbologie si intensifica trasformando via via il martirio in una sorta di via crucis, con innumerevoli croci che nel quarto atto ricordano la passione di Cristo e accompagnano, sfilando dietro una selva di cadaveri mummificati appesi come pipistrelli a testa in giù, questa vicenda religiosa e laica destinata a concludersi in ritualità liturgica del sacrificio.
Lo spettacolo, che ha toccato la durata di quattro ore e mezza, è stato accolto da generosi consensi finali, ma anche da applausi a scena aperta dopo le grandi pagine solistiche e con un delirio di acclamazioni per Kunde dopo la sua famosa aria. Solo qualche isolato buu per Poda. Davvero un bell’inizio di stagione per un Teatro Regio che ha ritrovato il livello dei suoi tempi migliori.
Teatro Regio – Stagione 2023/24
LA JUIVE
Opera in cinque atti
Libretto di Eugène Scribe
Musica di Fromental Halévy
Rachel Mariangela Sicilia
Éléazar Gregory Kunde
Eudoxie Martina Russomanno
Léopold Ioan Hotea
Il cardinale Brogni Riccardo Zanellato
Ruggiero Gordon Bintner
Albert Daniele Terenzi
L’araldo d’armi dell’imperatore e Un boia Rocco Lia*
Un ufficiale dell’imperatore Leopoldo Lo Sciuto
Un uomo del popolo Lorenzo Battagion
Altro uomo del popolo Roberto Calamo
*Artista del Regio Ensemble
Orchestra e Coro Teatro Regio Torino
Direttore Daniel Oren
Maestro del coro Ulisse Trabacchin
Regia, coreografia, scene, costumi e luci Stefano Poda
Regista collaboratore Paolo Giani Cei
Direttore dell’allestimento Antonio Stallone
Nuovo allestimento Teatro Regio Torino
Torino, 21 settembre 2023