Salisburgo, Festival di Pentecoste – Orfeo ed Euridice (con Cecilia Bartoli)

Si è appena concluso il Festival di Pentecoste a Salisburgo, quest’anno dedicato al mito di Orfeo, per scelta della direttrice artistica Cecilia Bartoli, protagonista indiscussa della quattro giorni di eventi che ha animato la graziosa cittadina austriaca. Appuntamento operistico principale del Festival era l’Orfeo ed Euridice di Gluck, rilevante almeno per tre motivi: il primo perché vedeva il debutto assoluto di Bartoli nel ruolo di Orfeo; il secondo perché si trattava della versione di Parma del 1769, oggi raramente eseguita; il terzo perché al termine della serata d’apertura la Bartoli è stata insignita del titolo di Österreichische Kammersängerin dal segretario di Stato per le Arti e la Cultura del governo austriaco Andrea Mayer. Un ennesimo riconoscimento, che si aggiunge a una lunga lista di onorificenze che la cantante italiana ha ricevuto nel corso della sua lunga e fortunata carriera.

In questa sede andremo a recensire la seconda e ultima recita, aperta ahimè con l’annuncio che la Bartoli era indisposta ma che avrebbe cantato comunque, chiedendo il supporto del pubblico. Per la cronaca, in soli quattro giorni Bartoli ha cantato in due recite di Orfeo, una versione concertante dell’Anima del Filosofo di Haydn, una Schubertiade e un Gala in onore di Daniel Barenboim. Dove trovi le energie è un mistero e rimane forse uno dei suoi punti di forza. Nonostante qualche cenno di comprensibile affaticamento vocale (suppur l’opera sia breve, Orfeo canta quasi tutto il tempo), Bartoli ha dato vita a una prova intensissima da vera cantante-attrice, magari non per tutti i gusti, ma con un indubbio magnetismo che ha trascinato spettatori in religioso silenzio in un viaggio musicale al servizio del personaggio. Al termine tripudio di consensi. Debutto di successo quindi, supportato dal resto del cast e dall’esecuzione musicale di Les Musiciens du Prince, un’altra creatura della Bartoli affidata ormai da anni alla bacchetta di Gianluca Capuano. Lo spettacolo sarà ripreso ad agosto per il Festival estivo, con recite tutte già esaurite.

Un po’ per la curiosità della Bartoli per le rarità, un po’ perché la versione originale di Vienna del 1762 è in tessitura contraltile (il primo Orfeo fu il castrato contralto Gaetano Guadagni) e quindi troppo bassa per la cantante italiana, è stata scelta la versione di Parma del 1769. In questa prima ripresa Gluck trasforma l’azione teatrale in tre atti in un atto unico a 7 scene, il cosiddetto Atto d’Orfeo, terza parte di un trittico dal titolo Le Feste d’Apollo, rappresentato al Teatro di Corte di Parma in occasione delle nozze di Ferdinando, duca di Parma, con l’arciduchessa Maria Amalia, figlia di Maria Teresa d’Austria. Per la ripresa parmense Gluck, oltre ad accorciare l’originale, affida la parte di Orfeo al soprano castrato Giuseppe Millico. Per lui il compositore trasporta in alto di una terza minore la celebre aria “Che farò senza Euridice”, da do maggiore a mib maggiore. Vedremo in un attimo che, per scelte registiche, drammaturgiche e musicali, quella andata in scena a Salisburgo non è proprio una fedelissima esecuzione della versione di Parma, ma prima di perderci in precisazioni, parleremo dell’artefice del successo della rappresentazione.

Cecilia Bartoli fornisce una prova maiuscola dal punto di vista interpretativo. Non potendo mettere in mostra la flessibilità dello strumento in un ruolo praticamente privo di agilità, Bartoli punta tutto su un’altra delle sue storiche caratteristiche distintive, l’attenzione al testo e il canto incentrato sulla parola. Già quando interrompe il coro funebre iniziale invocando tre volte il nome di Euridice, tutto ha il significato dovuto. Il suono è raccolto ma sempre in punta e ben proiettato all’interno dell’Haus für Mozart. Timbricamente inaridito qualche acuto, d’altronde Bartoli compirà 57 anni il 4 giugno e canta dall’’87. I centri e le note di petto hanno invece ancora una bella grana come quando affonda su “furie, larve, ombre sdegnose” in “Deh! Placatevi con me”. Il controllo del fiato ancora invidiabile, anche cantando da sdraiata. Bellissimo l’arioso “Che puro ciel” e toccante il duetto con Euridice, apice della tensione musicale della serata. Spiazza, in quanto mai ascoltata così, la resa di “Che farò senza Euridice” presa a tempo agitato a cogliere la disperazione per la seconda morte di Euridice. I tempi si dilatano progressivamente fino all’ultima ripresa strofica cantata a fil di voce e con sofferenza credibilissima. Più discutibile l’uso qua e là durante la rappresentazione di alcuni effetti veristici dove il suono è stato sporcato a scopo interpretativo.
Mélissa Petit ha cantato con grande intensità “Che fiero momento” con una voce dalla bella grana densa e dalle screziature scure. La sua è un’Euridice dal carattere spiccato e non un personaggio dalla personalità invisibile. Madison Nonoa è stata deliziosa ma non stucchevole nel suo breve cammeo con l’aria di Amore “Gli sguardi trattieni”, nonostante un costume da ancella funebre che appare in netto contrasto con il carattere disinvolto dell’aria a ritmo di danza.

Alla guida di Les Musiciens du Prince, Gianluca Capuano riesce bene nel compito di rendere in musica l’unità complessiva del lavoro di Gluck, prestando attenzione alla ricerca coloristica e timbrica; belli poi i soli di flauto e i pizzicati degli archi. Un Gluck certamente non ordinario per scelta dei tempi, ma musicalmente ricercato senza essere impersonale o, all’estremo, troppo barocchizzato. I coristi de Il canto di Orfeo preparati da Jacopo Facchini hanno cantato magistralmente come se fossero un’unica voce, una sorta di commentatore esterno alla vicenda, con una compattezza e una ricerca di qualità del suono veramente apprezzabili.

Come anticipato, quella andata in scena a Salisburgo è stata una versione ritoccata dell’Atto d’Orfeo. Della versione di Parma rimane il succedersi delle sette scene senza soluzione di continuità. L’atto unico viene però privato di tutto quello che non si addica alla visione registica di Loy e a quella musicale di Capuano. Ecco che la breve sinfonia iniziale viene troncata in toto, in quanto troppo allegra e incoerente con il tono funereo del coro successivo “Ah! Se intorno a quest’urna funesta”. Similarmente viene rimosso il lieto fine del quadro celebrativo finale: niente coro finale “Trionfi Amore, e il mondo intiero”. Viene invece ripreso il coro funebre che aveva aperto lo spettacolo. Questo perché il finale dell’opera viene riscritto da Loy in chiave nichilista con Orfeo che sceglie di morire varcando le porte dell’Ade.
Se la versione di Parma tagliava il ballo alla fine del terzo atto della versione viennese, per lo spettacolo di Salisburgo viene aggiunta invece la celebre danza delle furie inserita da Gluck per la versione parigina del 1774 e composta in precedenza per il Don Juan. Insomma più che versione di Parma 1769, verrebbe da dire versione di Salisburgo 2023. Una licenza (anzi più di una) presa al fine di una visione drammaturgica unitaria, e in qualche modo giustificata, secondo il regista, dai continui cambi operati dallo stesso Gluck ad alcune scene dell’opera nel corso degli anni. Nulla di scandaloso, quindi.

Veniamo quindi alla regia di Christof Loy. In realtà di regia non c’è molto e l’immobilità dell’inizio dell’opera sembra trascinarsi fino al termine. Peso preponderante viene invece dato alla danza come elemento integrante dell’azione teatrale, con le coreografie curate dallo stesso Loy. I danzatori sono in scena la maggior parte del tempo, tranne nel duetto tra Orfeo ed Euridice. L’impianto estetico non è male, ma per chi ha visto altri spettacoli di Loy non ha nulla di veramente nuovo. Le scene sono di Johannes Leiacker. L’atto unico viene ambientato in un salone con pareti ricoperte di legno (omaggio forse all’adiacente Karl Böhm Saal) e una grande scalinata sempre di legno scende fino in buca. Il coro fa il suo ingresso e va a prendere posto sulle prime gradinate, proprio sopra i musicisti dell’orchestra. In cima alla gradinata campeggia un grosso ingresso bianco a simboleggiare le porte dell’Ade. Moderni i costumi firmati da Ursula Renzenbrink. Al netto di qualche nota di colore nella scena dei campi Elisi, domina il bianco, indossato da Euridice e dalla ballerine che rievocano Euridice stessa, e il nero degli abiti dei ballerini-furie, di Orfeo (con una Bartoli en travesti con tailleur nero, lunga coda di cavallo e stivali col tacco) e di Amore. Insomma, lo spettacolo si lascia guardare ma appare ripetitivo e senza troppe idee: laddove riesce meglio è nel raccontare una storia dal carattere emozionale forte, ma qui è soprattutto merito di Cecilia Bartoli che ben sa come coinvolgere lo spettatore dall’inizio alla fine.

Se durante l’oretta e mezza scarsa dell’esecuzione non volava una mosca (cosa rara ormai praticamente ovunque a teatro, ma evidentemente non nella civile Salisburgo), allo spegnersi delle luci il pubblico è scoppiato in un boato di applausi. Ovazioni, standing ovations e lancio di fiori per Cecilia Bartoli, “L’Italiana a Salisburgo”, regina di un festival che in 11 anni ha acquisito peso via via maggiore, finendo per “invadere” anche il festival estivo, di cui Orfeo sarà uno degli eventi di punta. [Rating:4/5]

Salzurger Festspiele Pfingsten 2023
ORFEO ED EURIDICE
(Le Feste d’Apollo: Atto d’Orfeo, Parma 1769)
Azione teatrale in sette scene su libretto di Ranieri de’ Calzabigi
Musica di Christoph Willibald Gluck

Orfeo Cecilia Bartoli
Amore Mélissa Petit
Euridice Madison Nonoa

Regia e coreografie Christof Loy
Scene Johannes Leiacker
Costumi Ursula Renzenbrink
Luci Olaf Winter
Drammaturgia Klaus Bertisch

Direttore Gianluca Capuano
Maestro preparatore del coro Jacopo Facchini
Il Canto di Orfeo
Les Musiciens du Prince

Salisburgo, 28 maggio 2023