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Rovigo, Teatro Sociale – Tosca

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È con Tosca che il Teatro Sociale di Rovigo inaugura una stagione lirica incentrata su Giacomo Puccini, nel centenario della morte. Nel piccolo, ma delizioso teatro veneto, l’opera va in scena in un’atmosfera quasi familiare: negl’intervalli si vedevano gli orchestrali intrattenersi con il pubblico, e si sentiva il giovanissimo ma valente direttore artistico Edoardo Bottacin commentare con i presenti l’andamento dello spettacolo. «Le voci, per me l’importante sono le voci!», diceva Bottacin in platea. E dalle voci allora iniziamo per parlare di questo spettacolo.

Guardando la locandina, il nome che spicca immediatamente è quello di Fabio Sartori nel ruolo di Cavaradossi. Ora, quando nei teatri “di tradizione” si presenta un cantante particolarmente famoso a fianco di altri protagonisti, comunque di notevole esperienza, ma magari non parimenti abituati a palcoscenici, sulla carta, più prestigiosi c’è sempre il rischio che il cast risulti disomogeneo, e che la bravura di un interprete finisca a rendere più evidenti, nel contrasto, eventuali difetti degli altri. Non è questo il caso: certo le ridotte dimensioni del teatro aiutano, ma la voce di un Sartori non eclissa gli altri cantanti.

Francesca Tiburzi, esperta nei ruoli pucciniani, è una Tosca dal timbro caldo scuro. Molto sicura nel registro centrale, non delude nelle incursioni nella tessitura più acuta, come nel duetto del terzo atto, dove pare talvolta acquistare le sembianze di un soprano leggero. Sebbene i suoni più gravi restino un po’ coperti, è molto convincente nelle fasi più drammatiche dell’opera, dove regna la declamazione di stampo verista: e il suo “Assassino! Voglio vederlo!” merita gli applausi forse ancora più di “Vissi d’arte” (bissata a furor di popolo). In generale le si può forse rimproverare un fraseggio un po’ meccanico, come se a volte si preoccupasse più di articolare le singole note che di dare respiro alle frasi.
Al suo fianco, Fabio Sartori è un Cavaradossi di grande potenza: il suo “Vittoria! Vittoria!” fa quasi rizzare i capelli. Per il resto è un Cavaradossi che non indugia in facili esagerazioni tenorili, tanto nelle arie quanto nei duetti. “E lucevan le stelle”, come atteso, suscita grande emozione, e a grande richiesta del pubblico viene ripetuta (meglio la prima che la seconda volta, a dire il vero). Sartori ha i mezzi per risolvere correttamente tutte le sfumature che richiede il ruolo di Cavaradossi: dalla passione amorosa a quella politica, alla rassegnazione della condanna a morte. Se sul piano tecnico si può riscontrare, quando la partitura richiede dei pianissimi nel registro acuto, uno sforzo un po’ innaturale nell’emissione, resta comunque un po’ assente una caratterizzazione del personaggio, sia dal punto di vista musicale che da quello scenico, che vada oltre la mera esecuzione di quanto scritto. Ma questo nulla toglie al grande successo della sua interpretazione.
Sebastian Catana è un baritono dalla voce piuttosto chiara e dotata di squillo: sarebbe forse più adatto a ruoli verdiani che alla diabolica perversione d’un Vitellio Scarpia. Non a caso, il momento migliore della sua interpretazione è, nel secondo atto, il monologo che inizia da “Già! mi dicon venal…” e culmina a “Quel tuo pianto era lava”, dove le doti vocali lo aiutano a rafforzare la salita in acuto. Dall’altro lato, mancano un po’ le sonorità più cupe, specialmente in una produzione che gioca molto sull’oscurità del personaggio: Catana compensa però con spiccata teatralità, che gli costa qualche volta dei piccoli “dissidi” con l’orchestra quando si prende certe libertà ritmiche evidentemente non previste dal direttore. In ogni caso, la grande aria del finale primo è ispirata, malgrado qualche imprecisione negli acuti.
Completano il cast Alex Martini, un buon sagrestano, Lorenzo Cescotti, un Angelotti dalla voce assai profonda, lo Spoletta di Giovanni Maria Palmia assieme a Francesco Toso, Sciarrone, e Fabrizio Zoldan, il carceriere.
Il Coro Lirico Veneto diretto da Giuliano Fracasso e quello delle voci bianche preparato da Livia Rado convincono nella grande scena del finale primo, in cui va rilevata l’importanza data alle linee parlate con la formula della benedizione pontificale, che per una volta non sembrano mugugni incomprensibili sovrastati da Scarpia, organo e orchestra.

Maestro concertatore e direttore d’orchestra è Bruno Nicoli, che i più conoscono come direttore dei complessi di palcoscenico alla Scala. La sua guida sicura e rigorosa non lascia spazio a inutili languori nella partitura pucciniana, che viene trattata come un lungo poema sinfonico. C’è una grandissima attenzione ai Leitmotive, sottolineati ogni volta che appaiono da diversi colori degli strumenti orchestrali, si rispetta molto la continuità della scrittura e si utilizza tutta la gamma dinamica, senza timore di spingere gli ottoni (anche perché, miracolo dell’acustica, pure certi fortissimi d’orchestra non riescono a coprire le voci in palcoscenico). Si lascia così apprezzare la fine orchestrazione di Puccini, ed è quasi un peccato che “E lucevan le stelle” sia interrotta dagli scroscianti applausi e che si perda così il passaggio subitaneo tra la chiusura dell’aria e l’ingresso di Tosca. L’Orchestra Regionale Filarmonia Veneta fa del suo meglio, malgrado l’intonazione un po’ ballerina degli archi.

L’impostazione data dalla regia di Ivan Stefanutti è di grande fedeltà al realismo del libretto e alle dettagliate indicazioni sceniche che riporta, ma questo non la rende stantia né scontata. La scena è dominata da elementi architettonici (delle colonne, una scalinata) di marmo nero, che appaiono, con diverse disposizioni, in tutti gli atti. Sullo sfondo proiezioni digitali (ben fatte) mostrano gli scorci romani che l’opera raffigura: ma come scure sono le architetture in scena, i fondali animati non rappresentano una Roma semplicemente “da cartolina”. Gli ori della basilica di sant’Andrea della Valle, e la pala del Passignano con la crocifissione dell’apostolo, che appaiono sullo schermo, non danno un senso di sfarzo barocco ma di oppressione, come il gusto classico delle statue nell’interno di palazzo Farnese che sembrano osservare la scena. E nel finale, nel momento della fucilazione di Cavaradossi, il cielo si rannuvola come in una tempesta. Anche i costumi, in cui prevale il nero, mostrano l’oscurità della repressione di una Roma reazionaria. Scarpia si muove sempre attorniato da un certo numero di scagnozzi, tutti nerovestiti, che incutono terrore. L’interrogatorio del sagrestano è privo di note comiche, ma è reso drammatico dalle minacce dei birri di Scarpia. Stefanutti è anche bravo a riempire il palcoscenico. Il Te Deum è preparato con grande anticipo: non appena Scarpia giunge in chiesa, prelati di grado sempre più alto iniziano lentamente ad affluire, facendo crescere la tensione fino al grande unisono conclusivo.
Alla fine, grandi acclamazioni per tutti gli artisti intervenuti, che rasentano il tifo da stadio. Non possiamo che associarci nel salutare il successo di una produzione di ottimo livello per un teatro come quello rodigino: il miglior debutto possibile per una stagione che si preannuncia molto interessante.

Teatro Sociale di Rovigo
TOSCA
melodramma in tre atti
Musica di Giacomo Puccini
Libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa,
da La Tosca di Victorien Sardou

Floria Tosca Francesca Tiburzi
Mario Cavaradossi Fabio Sartori
Barone Scarpia Sebastian Catana
Cesare Angelotti Lorenzo Cescotti

Il sagrestano Alex Martini
Spoletta Giovanni Maria Palmia
Sciarrone Francesco Toso
Un carceriere Fabrizio Zoldan

Orchestra Regionale Filarmonia Veneta
Direttore d’orchestra Bruno Nicoli
Coro Lirico Veneto
Direttore del coro Giuliano Fracasso
Coro di voci bianche e giovanile dell’Associazione Musicale “F. Manzato”
Direttrice Livia Rado
Regia, scene e costumi Ivan Stefanutti
Luci Roberto Lunari

Rovigo, 15 ottobre 2023

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