Un trionfo di applausi, di suoni caricati dal podio e di voci (Tonio e Canio su tutti) fra le luci colorate e i tanti gesti di massa per il ritorno al Teatro dell’Opera di Roma del dramma musicale verista per antonomasia, Pagliacci di Ruggero Leoncavallo, che rivive e rimbalza con girandola felliniana come “il più grande spettacolo del mondo” ai margini di una squallida periferia qualunque, poverissima e moderna, del nostro Sud. Il tutto a ricordo e a ripresa dell’unica produzione attualizzata a firma dell’infallibile Franco Zeffirelli, nel primo centenario dalla nascita, creata dal maestro fiorentino nel 1992 proprio per il Costanzi con la direzione di Daniel Oren, tornato per l’occasione dopo tredici anni di assenza dal podio romano.
Di grande impatto ora (sebbene con qualche ridondanza di troppo nella ripresa di Stefano Trespidi) come allora, sulla scena sfila il circo caleidoscopico di un’umanità di sempre, ammassata in strada fra le sue categorie più disparate e nei costumi vivacissimi di Raimonda Gaetani – clown e funamboli di ogni sorta, gente comune e popolani, una squadra di agenti della polizia, ragazzini e un gruppo di scolarette, una prostituta, un femminiello più un matrimonio sotto una pioggia di riso durante il Coro delle campane – eppur tenuta insieme nell’equilibrio a specchio fra vita vera e finzione che, al salto di secolo, lega a fil doppio il credo nichilista nell’istrion beffardo e la burla concertata in fuga di Boito-Verdi, i cruenti commedianti di Leoncavallo e il disincantato saltimbanco del Palazzeschi. Per l’atto secondo sul fondale, non a caso, lo spazio sarà interamente tappezzato con ritratti di pagliaccio mentre, sul palco, prende forma e primo piano lo sfavillante teatrino con il pubblico intorno.
Ed è così che prende forma la tranche de vie opulenta e ipercinetica dinanzi a una sgangherata palazzina di ringhiera alla cui base si aprono gli ingressi di un’officina e di un bar più un bordello al centro, mentre, salendo ai due piani superiori, si scorgono pezzi di vita quotidiana fra i consueti oggetti esterni (una scala, uno stendino) e gli interni illuminati da un lampadario o da una vecchia tv in bianco e nero. È qui che arriva e scende ripida lungo un praticabile a tornante, facendosi largo tra la folla eccitata, la malmessa roulotte dei “Pagliacci”. Ma prima che inizi la storia, quella vera, fuori atto fra il panneggio rosso del sipario sbuca alla ribalta il clown coloratissimo e luccicante Tonio, il commediante scemo e difforme che, in funzione di Prologo, avverte e scuote sul realismo di lacrime, risa e spasimi le coscienze in sala. È il Tonio di statura immensa interpretato dal baritono mongolo Amartuvshin Enkhbat, artista che sa unire come pochi la solidità della tecnica alla morbidezza del legato e ai volumi poderosi, l’autorità dello stile alla marcatura degli accenti e alla chiarezza della dizione entro una linea d’espressione per sua natura esente da vistosi eccessi, veristici in tal caso, ma non per questo meno aderente a effetti e a dinamiche in partitura. Ne è subito d’esempio la varietà di emissione e tornitura, pur nella continuità di linea, con cui articola la sua celeberrima pagina fuori quarta parete (Si può?) riconosciuta come il manifesto del Verismo musicale italiano, passando dalla cauta interrogativa iniziale alla salda espansione sul mi nel presentarsi in forma diretta, per poi virare dall’andantino cantabile all’intonazione decisa, a seguire dolente, quindi incalzante, dando infine sfogo all’intensità del canto con l’arpa, alle impennate ampie e tenute con forza ed anima. E giù, per lui, la prima valanga di applausi a scena aperta sulla musica ancora in chiusa. Di lui si apprezzano inoltre la violenta tinta tragica per l’amore negato nel duetto (So ben che difforme) in bel contrasto con il tono scanzonato da commedia di Nedda, gli interventi piccati durante la recita, la chiusa feroce e compiaciuta a un tempo (La commedia è finita!) sillabata verso il pubblico sulle otto crome ribattute in si e a lui affidata (dunque non come da convenzione a Canio) nel giusto rispetto di libretto e partitura d’origine.
Altro gran punto di forza dello spettacolo si rivela presto l’esordio magnifico, a Roma e nel ruolo di Canio, del tenore americano Brian Jagde, andato a conferire un’altissima statura al personaggio per la bellezza dello stile canoro e la maggiore umanità generalmente assenti nell’uxoricida capo della compagnia. Anche nel suo caso la dizione è limpida e funzionale a un’emissione che si fa sempre più netta e potente con il montare della gelosia. Oltre il vivido slancio d’ingresso con “Un tal gioco credetemi”, è a partire dall’arioso “Vesti la giubba”, cantato “allo specchio” in coda al primo atto con curvature melodiche folgoranti fra lo scatto degli accenti e la forza “a piena voce”, che il suo Canio ci rivela quanto sia intenso e immenso il ruolo a riverbero fra anima, realtà e teatro. Anche qui e stavolta per lui, ancora sulle battute dell’orchestra, il clamore del pubblico decreta il pieno successo, mutato in trionfo al termine del parimenti apicale “No! Pagliaccio non son” all’atto secondo. Un prova superba di equilibrio metateatrale, quest’ultima, alla quale Jagde restituisce autenticità mirabile di corde e di cuore, ponendosi quale anello di estremo interesse fra i grandi miti del passato e una caratura del ruolo più moderna.
Bella, spigliata e padrona della scena, Nino Machaidze sfodera per Nedda/Colombina ampi mezzi vocali, anche se con qualche suono meno in forma e curato del solito. In particolar modo, trattandosi di libretto verista, al soprano georgiano non giova lo scarso scavo nella parola poetico-drammatica di cui si avvertono, pressoché esclusivamente, le sonorizzate vocali. La quota interpretativa è in ogni caso sempre assai prestante negli assieme laddove la sua ballatella, slancio dei trilli in premessa e degli acuti a parte, risulta sostanzialmente stirata sopra le righe.
Di conio romantico per fisicità e una vocalità perfettibile per il ruolo è il Silvio dell’affascinante baritono Vittorio Prato, di cifra antica e peculiare è invece il Beppe/Arlecchino del bravo Matteo Falcier mentre, a completare il cast, c’erano Fabio Tinalli (primo contadino) e Giuseppe Ruggiero (secondo contadino).
Terzo quanto fondamentale cardine dello spettacolo, la direzione musicale di Daniel Oren alla testa dell’Orchestra e del Coro della Fondazione, quest’ultimo preparato con dovizia di dettagli e colori da Ciro Visco. Degna di nota anche la partecipazione del Coro di Voci Bianche e della Scuola di Danza del Teatro dell’Opera di Roma. Al maestro israeliano si devono infatti la tenuta coesa e la vigorosa plasticità dell’intero affresco sonoro e il delizioso lavoro d’intaglio nell’Intermezzo, i turgori e le dolcezze della tavolozza timbrico-dinamica, gli affondi drammatici, le tensioni sommerse e le esplosioni rabbiose, con speciale attenzione per la componente festosa delle masse e per la tinta teatrale nell’arte della commedia.
Infine, la significativa presenza in platea del Direttore musicale Michele Mariotti e del tenore Gregory Kunde mentre, in aggiunta alla notizia delle dimissioni presentate dal direttore artistico Alessio Vlad, con un paio di mesi di anticipo sulla scadenza del lungo mandato, nel prossimo futuro dell’attuale vertice artistico del Festival di Ravello potrebbe aprirsi una nuova prospettiva su Firenze, al Teatro del Maggio.
Teatro dell’Opera di Roma – Stagione 2022/23
PAGLIACCI
Dramma in un prologo e due atti
Libretto e musica di Ruggero Leoncavallo
Nedda Nino Machaidze
Canio Brian Jagde
Tonio Amartuvshin Enkhbat
Silvio Vittorio Prato
Beppe Matteo Falcier
Primo contadino Fabio Tinalli
Secondo contadino Giuseppe Ruggiero
Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma
Coro di voci bianche del Coro di Voci Bianche del Teatro dell’Opera di Roma
Scuola di Danza del Teatro dell’Opera di Roma
Direttore Daniel Oren
Maestro del coro Ciro Visco
Direttore del Coro di Voci Bianche Giuseppe Sabbatini
Direttrice della Scuola di Danza Eleonora Abbagnato
Regia e scene Franco Zeffirelli
Ripresa della regia Stefano Trespidi
Costumi Raimonda Gaetani
Luci Vinicio Cheli
Integrazioni tecniche per scene, costumi e attrezzeria
a cura del Teatro dell’Opera di Roma
Allestimento Teatro dell’Opera di Roma
Roma, 12 marzo 2023