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Roma, Teatro dell’Opera – Messa da Requiem diretta da Michele Mariotti

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Stupore vibrato a fior di labbra, una paura del nulla che ha fibra tellurica, una potenza drammatica pronta a infiammarsi nella magnificenza del quartetto delle voci soliste, nell’immensità di sfumature del Coro, negli affondi netti e vertiginosi a un tempo dell’orchestra. Il tutto, a ritrarre con afflato espressivo toccante e con forza di taglio scultoreo un’umanità viva, vera e palpitante, consapevole di esser sola e disarmata in assenza della fede dinanzi al mistero universale della morte, al cospetto delle terrifiche visioni veterotestamentarie dell’ultimo, giudizio supremo. È quanto si ascolta, come l’autore stando alla scrittura in partitura avrebbe voluto, dalla grandiosa Messa da Requiem di Verdi proposta in serata unica al Teatro dell’Opera di Roma grazie alla presenza sul palco di un quartetto di voci eccelse – il Premio Abbiati Eleonora Buratto (a sorpresa e neanche a tre ore dal concerto arrivata in sostituzione della prevista Elena Stikhina), Yulia Matochkina, Stefan Pop, Giorgi Manoshvili – al fianco delle notevolissime prove del Coro preparato ad arte dal maestro Ciro Visco e dell’Orchestra della Fondazione, masse sonore regolate con sapienza e pertinenza esemplari dal già amatissimo direttore musicale Michele Mariotti.

Un finale di partita a luce laica, il Requiem verdiano, giocato con esito trionfale in apertura della programmazione concertistica e in tale occasione scolpito trovando nella caratura delle dinamiche e nello scavo della parola in musica una plasticità teatrale impressionante. A partire da quel velo di suoni dalla tinta aurorale, mirabilmente calibrato “il più piano possibile” dal solidissimo Coro (di raro smalto le sezioni femminili, stentoree le maschili) curato dal recentemente nominato Visco e dal bel colore degli archi nelle prime ventisette battute dell’Introito, per poi impennarsi fra le modulari sortite del quartetto dei solisti con le fiamme circolari e apocalittiche del Dies Irae, fino alla grande scena e invocazione per soprano più fuga in chiusa.
Dunque centrando con intelligenza il senso, il dubbio e il fuoco del grandioso Requiem di Verdi, proposto al Teatro Costanzi in significativa coerenza con l’ultimo tracciato compositivo dell’autore lungo la scia del successo dell’appena conclusa Aida ed entro il progetto “Viva Verdi” promosso dal Ministero della Cultura per acquisire la casa-museo di Sant’Agata, l’Opera di Roma ha inaugurato al meglio e in giusta quota sinfonico-corale per una Fondazione lirica il suo primo ciclo di concerti in stagione, con le compagini artistiche al top e al completo, fra gli applausi convinti e scroscianti di una sala debitamente piena.

In apertura, il pubblico apprende praticamente in simultanea il repentino cambio del soprano nel cast dal foglietto interpreti interno al programma di sala e udendo quanto comunicato dalla voce fuori campo nel ringraziare Eleonora Buratto, giunta a Roma dopo un’intervista in tarda mattinata alla Scala e arrivando veramente al volo su un Frecciarossa nel pomeriggio per cantare al posto della Stikhina impossibilitata a partecipare a causa di un’indisposizione improvvisa. Immediatamente a seguire, un duplice pensiero espresso a nome di tutti i lavoratori della Fondazione dallo stesso direttore musicale Michele Mariotti che, nel salire fra gli accesi consensi sul podio, ha invitato gli spettatori a un minuto di silenzio: con un primo segno di gratitudine, ha voluto ricordare il maestro Gianluigi Gelmetti, per dieci anni vertice musicale dell’Orchestra della Fondazione (fu lui a portare, tra l’altro, il Coro romano alla Sidney Opera House proprio con il Requiem di Verdi, nel 2004) scomparso nell’agosto di due anni fa; con il secondo, ha dedicato un messaggio di forza e solidarietà alle vittime e ai familiari del terribile sisma che ha tragicamente colpito negli scorsi giorni le popolazioni di Siria e Turchia.

Quindi il via alla musica, quella più potente, sacra, drammatica, umanissima e identitaria di un Ottocento italiano serrato fra le date e i nomi emblematici dell’autore Giuseppe Verdi (la partitura è del 1874) e del dedicatario in memoriam Alessandro Manzoni (dal compositore personalmente conosciuto nel 1867, ancora incontrato a Milano nel 1868 e, a un anno dalla morte, celebrato da tale Requiem in San Marco, sempre nella città lombarda). In filigrana, però, c’è anche Gioachino Rossini, destinatario in morte e all’origine di una Messa (nel 1869, data la scomparsa avvenuta nel novembre precedente) secondo il progetto verdiano, poi accantonato, a firma di dodici diversi compositori con chiusa sul proprio Libera me Domine, pagina sublime poi ripresa e trasfigurata a sigillo del suo capolavoro di genere sacro.
Requiem umanissimo, si diceva. La direzione di Michele Mariotti ne sigla infatti subito la peculiare essenza lavorando con lucidità e compattezza d’arco drammatico sulla qualità di una materia sonora sempre concreta e terrena, sul versante vocale in primis. I colori e gli effetti, pur divaricati e molteplici, risultano infatti costantemente al riparo da mere esibizioni di forma o di parossismo corale e strumentale, o da esteriori primi piani sul solista o sull’assieme di turno. In parallelo alla solidità metrica e all’equilibrio estremo garantito all’intera costruzione nel pieno controllo dei diversi numeri e livelli fonici (giusto il Sanctus a doppio coro ci è sembrato meno al dettaglio), da ogni tassello saltano fuori e ben oltre l’esecuzione di bravura la presenza del vero, le ombre dell’anima, la sostanza palpabile di corpi e sentimenti, personaggi verdiani compresi. Avvertendosi tanto nella suggestiva dizione del Coro soffiata a mezza voce quanto nel portentoso scavo drammatico ad esempio della Buratto, nella perorazione incalzante del tenore, nel mutare la disperazione in speranza o nel solo angolato del bravissimo primo fagotto, l’interrogativo del dubbio, la sostanza di anime umane realmente. Come a dire che l’analogia generalmente riconosciuta fra il Requiem di Verdi e il Michelangelo dell’immenso affresco del Giudizio Universale nella Cappella Sistina ha qui qualcosa di più vicino alla sua non meno miracolosa, ma ben più vera e terrena, Pietà marmorea.

In linea assolutamente coesa con le intenzioni dal podio le prove superbe dei solisti al proscenio. A cominciare dal soprano Eleonora Buratto che nell’occasione, ancora una volta di più, ha mostrato doti di professionalità assoluta entrando di fatto nel cast in corsa e riuscendo a cogliere l’esatta cifra espressiva in campo. Che il soprano mantovano sia interprete di riferimento per il capolavoro sacro di Verdi è ormai un dato di fatto ma va pur considerato che, al momento, il suo impegno è concentrato su altri fronti fra l’imminente Antonia nell’Offenbach dei Contes d’Hoffmann alla Scala dal 15 marzo e, oltre alla carrellata di ruoli per il Gala Verdi il prossimo 26 febbraio a Bologna, sosterrà un doppio Puccini tornando con Bohème in primavera al Metropolitan di New York e a Roma, stavolta come da locandina, con l’attesa Madama Butterfly immediatamente a seguire in giugno. La sua non facile parte qui nel Requiem, pur nella tensione sottopelle sfociata in qualche salto d’intesa nella coda corale al Libera me, comunque comprensibilissimo e gestito al meglio, ha splendidamente brillato in virtù di una voce da brividi, imponente per luce, inflessione e volume, fiato, estensione e intonazione, ben tornita al grave come nelle puntature all’acuto, preziosa nei filati in pianissimo. Colpiscono, in particolare, le sue sortite in assieme interne alla Sequenza (Quid sum miser con il citato fagotto e Recordare) per la capacità dell’amalgama, la lama al platino accanto al mezzosoprano nell’Agnus Dei, l’omogeneità di pasta e la forza di affondo nella parola “senza misura” come nell’articolazione, al numero 7, che vibra dei tanti ruoli da lei maturati passando da lirico puro a lirico spinto di intensa e italianissima texture drammatica.
Magnifica nel velluto dell’emissione e per la padronanza dei suoni agli estremi del suo registro, poi, il mezzosoprano Yulia Matochkina che, da verdiana doc, scontorna un Liber scriptus da manuale per la quota espressiva con cui governa accenti, pause e dinamiche, le sfumature in pianissimo nei salti o l’incedere in crescendo nel doppio puntato, accompagnando ad arte le esplosioni di voce.
D’alto grado è quindi la cifra interpretativa messa a segno dal tenore Stefan Pop, terso nel timbro quanto pregnante nel porgere in unione, quasi gestuale, la parola e il canto. Ne risulta un fraseggio ideale, umano e teatrale al contempo, nobilmente sfaccettato in ogni suo dettaglio, abilmente levigato nelle zone al passaggio. Il suo Ingemisco è pentimento e momento di pregiata intensità ritagliato com’è fra slancio eroico e tanta tenerezza.
A completare il quartetto dei solisti, la voce a luce scura del basso Giorgi Manoshvili, applaudito Re nella recente Aida capitolina, duttilmente funzionale all’insieme e alla prosodia del testo.
Al termine, una lunghissima pausa a far svaporare l’immensità dell’opera e del suono, quindi il meritato trionfo di applausi per tutti.

Teatro dell’Opera di Roma – Stagione di Concerti 2022/2023
Serata inaugurale

MESSA DA REQUIEM
per soli, coro e orchestra
Musica di Giuseppe Verdi

Eleonora Buratto, soprano
Yulia Matochkina, mezzosoprano
Stefan Pop, tenore
Giorgi Manoshvili, basso

Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma
Direttore Michele Mariotti
Maestro del coro Ciro Visco

Roma, Teatro Costanzi, 15 febbraio 2023

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