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Roma, Teatro dell’Opera – L’elisir d’amore

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Serrato, ironico e vivace, a luce bianca come una moderna fiaba teatrale mediterranea fatta di carta che, ben oltre la generica elegia semiseria basca e campestre, con piglio concreto ritaglia stili e caratteri fra le sospensioni del sogno e di un gioco un po’ alla turca, rossiniano e circense. È L’elisir d’amore di Gaetano Donizetti su libretto di Felice Romani riletto dalla regia di Ruggero Cappuccio, ripreso in terza battuta con bel successo e qualche ritocco di ordine scenico dall’Opera di Roma dopo il varo del 2011 e il ritorno nel 2014 per sfoderare, nell’occasione, due significativi debutti alla Fondazione capitolina e una notevolissima linea musicale nel migliore stile del belcanto, staccata in rara quanto perfetta intesa fra podio e palcoscenico.

La produzione nel complesso ben funziona e regge alla corda del tempo, al di là di qualche trito eccesso nei movimenti twistati e a fronte delle continue giocolerie in equilibrio fra trampoli, monocicli, fazzoletti e bandierine, sfere di cristallo, birilli, uomo-forbice, turchi e quant’altro, cui si aggiungono i distraenti acrobati sospesi che in qualche misura agganciano il ricordo dei maggiormente a fuoco Pagliacci di Leoncavallo parimenti in bianco e usciti qualche mese dopo, ma sempre nel 2011, a firma del fantasista Finzi Pasca per il San Carlo di Napoli. O, ancora, in vista del poco pertinente (per quanto d’impatto) Dulcamara che arriva in ginocchio come un nano in tuba gialla, occhialetti scuri e mantellina per alzarsi poi d’un colpo nel presentare il suo magico liquore.
Viceversa di assoluto smalto è la semplicità stilizzata e pulita garantita alle scene dal sempre apprezzato Nicola Rubertelli con i gruppi di casette tipo Sassi di Matera sullo sfondo e con gli altri simboli legati alla natura intorno, così come funzionali risultano i candidi costumi villerecci adorni di frutta e fiori su gilet, o impressi a mo’ di calcomania sui grembiuli in plastica, realizzati da Carlo Poggioli a contrasto con le divise militari in stile Schiaccianoci, con i completini baschi e gli abiti da Entführung accanto alle luci di volta in volta efficaci e cangianti di Vinicio Cheli. Il lavoro sul ritmo gestuale operato da Cappuccio, pur presente in sala ma non uscito al termine in palcoscenico, è comunque riconoscibile e costante anche se, francamente, in coincidenza con l’apice della “Furtiva lagrima” – e questo vale a nostro avviso per tutti i numeri canori di punta in qualsivoglia altra opera – sarebbe sempre preferibile lasciare in pace e la scena al solo protagonista in partitura, in tal caso accompagnato alle spalle dalle evoluzioni su fascia elastica di una pur delicata artista aerea giocata in contrappunto.

Il primato dei meriti va assegnato, innanzitutto e a ogni buon conto, a quel che si ascolta. Dunque, all’intera schiera degli interpreti. A partire dal direttore d’orchestra Francesco Lanzillotta, romano al suo esordio sul podio del Costanzi, confermatosi conoscitore attento e sapiente di una partitura ben testata anche all’aperto al Macerata Opera Festival (anno 2018) con l’allora esordiente Nemorino dello stesso John Osborn (qui presente) nella singolare versione balneare reinventata dal regista Michieletto. Scatto ritmico, piena consapevolezza delle differenti sezioni metriche ed esatto peso nel calibrare i suoni sono in realtà evidenti sin dalle primissime pagine della Sinfonia d’apertura. Ma quel che più sorprende nella direzione, oltre alla padronanza dello stile del belcanto donizettiano non privo di retaggi rossiniani e all’intelligenza con cui risultano organizzati i pannelli architettonici nei quali si condensa la struttura drammaturgico-musicale del melodramma giocoso, è il potenziale ad alta temperatura teatrale affidata in corso d’opera alla compagine orchestrale declinandone la funzione fra il mero sostegno o in spiccata sinergia concertante a seconda dell’esigenza, di caso in caso, individuata in partitura. Lo scorcio arcadico iniziale con i legni acuti in dialogo lascia infatti presto il campo a una mirata tornitura dei singoli personaggi, ad esempio anticipando già nella cavatina di Nemorino la tenera patina larmoyante che sarà poi della sua celebre illusione in forma di romanza, mentre per Adina Lanzillotta va non solo a sostenerne la vocalità solitamente fredda e civettuola ma concorre a valorizzare, puntualmente, la bella autenticità del suo canto. Quindi cercando, per Belcore, accenti semplificati in asse con la maschera militare e con lo scarto della parodia iperbolica con cui arriva a presentarsi. Per il motore Dulcamara, attiva invece tensioni, dinamiche e colori nel solco di un astuto Figaro, decisamente al riparo dalla canonica caricatura dell’imbroglione buffo. Mirabile inoltre la potenza negli assieme, dei Finali, il giro di vite nelle strette e il particolare rilievo da terzo protagonista affidato all’orchestra che entra in quota paritetica al fianco di Nemorino e Dulcamara nel duetto in cui il medico ciarlatano gli spaccia per elisir il bordeaux di qualità o, ancora, a rimbalzo nella deliziosa barcarola a due voci di Adina e Dulcamara alla prima scena dell’atto secondo.

Il resto del successo spetta naturalmente alle voci di primo rango chiamate all’appello con vertice prezioso, per timbro e stile, nell’alta simbiosi fra i due protagonisti. Ormai raffinato interprete di riferimento per un ruolo da vero poeta del belcanto, il tenore John Osborn restituisce infatti un Nemorino che con sincero slancio cesella speranze e sospiri d’amore in unione a un’ingenuità che al contempo commuove e fa dolcemente sorridere, sostanziando un canto che è sì semplice e aggraziato ma sempre autentico e nobile nel lavoro sul legato, curato nelle puntature all’acuto, pensato nel dosaggio dei colori e delle dinamiche a forchetta con cui rimpolpa e dà valore ai lemmi-chiave. La sua “Furtiva lagrima”, complice il controcanto morbido e magnifico del primo fagotto Eliseo Smordoni, si libra in volo come un sogno, ben oltre l’illusione svelata dalla falsa tonalità in approdo a quel brillìo che crede di aver visto negli occhi della sua amata Adina. Ne espande il senso e il suono, vibra nei palpiti, ne smorza gli accenti in delicate mezzevoci, ricerca respiri e appoggi, si inerpica sicuro in volatina per svettare nel sol naturale e, naturalmente, crescendo nel cuore della parola “amor”. Lunghi per lui gli applausi a scena aperta con ripetute, ma vane nella recita in esame, richieste di bis.
Al pari del maestro Lanzillotta, nuova al palcoscenico dell’Opera di Roma era la presenza di Aleksandra Kurzak, fra le migliori stelle del range sopranile partita dal belcanto e qui tornata sul terreno delle agilità dopo essersi spinta fino a Nedda, Santuzza, Butterfly e Tosca. Segnali a doppio taglio del suo coraggioso itinerario vocale, in verità, si avvertono nella maggiore maturità con cui distilla e ben appoggia ogni singola nota, nella duttile bellezza della proiezione e del fraseggio lungo l’intera estensione ma anche nei punti per fortuna assai rari (il trillo sciolto a coppie di crome legate nel duetto con Belcore, a fronte degli splendidi “la” acuti in ribattuto, o le pirotecnìe della sua ultima cabaletta), nei quali accusa ma magistralmente domina e risolve qualche ombra di stanchezza. Detto ciò, la sua Adina brilla per la forza del carattere e in special modo per una personalità canora di tempra varia e non comune, unita al platino sempre garantito ai picchettati e agli altri acuti.
Non meno prestante si rivela inoltre fin dal suo esordio anche il Dulcamara del baritono Simone Del Savio, cantante-attore da lodare per volume e scansione del testo, pronto a volgere il buffo caricato in un personaggio ben più articolato e complesso. È astuto, stentoreo, dinamico e sonoro, così come d’altronde suggerito in partitura dal suo impegno giocato in zona medio-alta più che nelle meno libere profondità del basso. Di timbro più scuro e severo del solito, invece, appare il Belcore del baritono Alessio Arduini, probabilmente in migliore coerenza con il ruolo di “basso” previsto da Donizetti ma anche lui a compromesso con la spinta verso l’estensione baritonale. Se ne apprezza in particolar modo l’atipica eleganza di portamento nella cavatina “Come Paride vezzoso” e, a seguire, il confronto scolpito ad arte nel duetto con Nemorino al second’atto. Finalmente non anonima per voce e fisicità la Giannetta del soprano palermitano Giulia Mazzola, villanella dal piglio scenico e canoro svettante alla guida dell’Introduzione e mai in ombra negli assieme alla luce, d’altra parte, della quota e qualità degli acuti a lei assegnati dal compositore bergamasco. Esatta infine la viva e plastica cifra donizettiana del Coro della Fondazione capitolina, preparato con dovizia dal nuovo e ottimo maestro Ciro Visco.

Teatro dell’Opera di Roma – Stagione 2022/23
L’ELISIR D’AMORE
Melodramma giocoso in due atti di Felice Romani
da Le philtre di Eugène Scribe
Musica di Gaetano Donizetti

Adina Aleksandra Kurzak
Nemorino John Osborn
Dulcamara Simone Del Savio
Belcore Alessio Arduini
Giannetta Giulia Mazzola
Attore Stefano Guizzi

Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma
Direttore Francesco Lanzillotta
Maestro del coro Ciro Visco
Regia Ruggero Cappuccio
Scene Nicola Rubertelli
Costumi Carlo Poggioli
Luci Vinicio Cheli

Mimi acrobati
Agnese Ascioti, Olimpia Ferrara, Marcella Grande,
Barbara Fiorenza, Viviana Filippello, Daniela Visani,
Enzo Mirone
, Gianluigi Capone, Claudio Ciannarella, Giorgio Coppone

Allestimento Teatro dell’Opera di Roma
Roma, 13 gennaio 2022

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