Visionario, essenziale eppur fitto di vertigini barocche, fra sorprese, allegorie e simboli. Ossia, pulito e modernissimo all’occhio quanto solletico benefico per una mente pronta a captarne il vortice di agganci e tecniche teatrali di ogni genere e tempo. Per non parlare delle mirabilia messe a segno in musica e in palcoscenico a colpi di ugole contraltili, maschili e non, tutte al vertice accanto agli altri registri entro una gara canora fatta di pirotecnie superbe, di variazioni raffinate, di lamenti vibranti e avvolgenti.
Trionfa così, a sala piena e fra applausi entusiastici, il Giulio Cesare in Egitto di Georg Friedrich Händel su libretto di Nicola Francesco Haym (declinato sul precedente testo seicentesco di Giacomo Francesco Bussani per Antonio Sartorio a Venezia) in prima italiana al Teatro dell’Opera di Roma nel nuovo e ben centrato allestimento creato per la regia di Damiano Michieletto in coproduzione tra la Fondazione lirica capitolina e i palcoscenici che ne hanno già varato la rappresentazione pur con qualche difformità scenica, vale a dire il Théâtre des Champs-Elysées di Parigi (l’11 maggio 2022), l’Opéra National de Montpellier e l’Opera di Lipsia.
A tutti gli effetti e a dispetto della diffusa reticenza italiana per l’invece magnifico e di successo teatro musicale del Settecento, la produzione proposta in chiusura di stagione si è rivelata vincente già solo per aver portato in debita luce e con la migliore qualità auspicabile il gran cosmopolitismo dell’opera barocca italiana con relativa parata di castrati, in questo caso in scena a Londra nel 1724 con la coppia svettante formata dal castrato Francesco Bernardi in arte il Senesino e dalla mitica Francesca Cuzzoni, poggiando inoltre su un soggetto storico di rara pertinenza per il Costanzi di Roma e in buon rimando al contemporaneo Julius Caesar di Giorgio Battistelli parimenti prodotto dal Lirico della Capitale due anni fa. Il tutto per merito, indubbio e innegabile, del nuovo corso innescato a partire dalla sovrintendenza di Carlo Fuortes e, oggi, di Francesco Giambrone.
Eliminati i sia pur minimi interventi del Coro (rimane giusto l’assieme finale), sfoltiti ma neanche troppo i versi dei recitativi, saldati primo e secondo dei tre atti eludendo la magica sospensione – ed è un peccato – all’apice sul duetto di Cornelia e Sesto, eliminati solo pochi numeri minori, nonché leggermente rimodulando il sistema originale delle voci (alla prima londinese Sesto fu interpretato dal soprano en travesti Margherita Durastanti, qui invece dal terzo dei quattro controtenori in campo e così i due bassi assegnati a baritoni di timbro scuro), l’allestimento romano rispetta saldamente nella forma come nello spirito lo stile e l’impianto di libretto e partitura, con recitativi secchi o accompagnati e arie, tranne quella di sortita di Cesare, tutte col da capo. E lo fa pur nell’invenzione d’avanguardia, decisamente ricca di spunti serrati che il regista Damiano Michieletto attiva sul fronte visivo a partire da due perni semantici in realtà già contenuti nei versi in recitativo del libretto. Da un lato il fuso, da cui parte il filo rosso della vita e dei perigli intorno a un Cesare perennemente in balìa del destino (a citarlo è Tolomeo alla sorella Cleopatra nella scena quinta al primo atto, per ricondurla alle mansioni di donna contro le velleità di regno e scettro da lei sognate); dall’altro le tre parche nude e silenti costantemente in scena con prossemica da Cacciata dal Paradiso Terrestre del Masaccio in effetti invocate al singolare dallo stesso Cesare (III.3, “Celeste Parca / Solo… errar”) nel suo recitativo accompagnato sul campo di battaglia.
Il resto procede nella più esatta intesa fra le arti e dinamiche di scena: Michieletto scandisce l’azione più d’anima e d’affetti che di storia e di politica giocando sui fili in cui resta imbrigliato il destino di Cesare, fino a tirar dentro anche la visione della futura congiura perpetrata dai senatori pugnalando con grande effetto la cortina di un sipario di cellophane. Lo stesso usato da Sesto per soffocare il perfido Tolomeo. Quindi, fa leva sullo scarto fra la rapidità delle idee o dei colpi teatrali (le ceneri di Pompeo che piovono dall’alto, la caduta improvvisa dei velari con il colpo d’ala in chiusa a luce rossa, lo scoppio di stelle filanti) e la lentezza dei gesti ponderati, sulle suggestioni pittoriche e plastiche, teatrali (dalla Salome suggerita dal dono del capo mozzato del nemico Pompeo al monteverdiano Orfeo per l’incombere di fato e morte fra presenze zoomorfe, più un convitato di pietra da Pantheon con la statua del defunto Pompeo) o cinematografiche (Lost in Translation per Cesare, Gilda con la sinuosa Rita Hayworth in raso verde per Cleopatra). Paolo Fantin, da par suo, crea un contenitore scenico neutro e ideale: due pareti di una camera bianca (poi nera) che è luogo della stessa vita, camera della coscienza. Si staglia d’impatto e a contrasto con l’intreccio di fili color sangue che attanagliano come un burattino il figurante usato a doppio del protagonista, si apre parzialmente a taglio per svelare colori e allegorie oltre il fondo, diventa sala da pranzo del re Tolomeo o boudoir della futura regina Cleopatra. Analogamente moderni e trasversali sono i costumi di Agostino Cavalca: Cesare in completo blu, Cleopatra in sottoveste gialla poi in abito lungo alla Hayworth, Cornelia in tailleur anni Cinquanta in triste color castagna, poi in sottoveste nera nella scena dello stupro, Sesto con pullover da tennis, Tolomeo capello alla Morgan e petto nudo tatuato, in pantaloni stretti, ampio mantello e collare egizio a emblema del potere. Perfette e folgoranti le luci di Alessandro Carletti, efficaci i movimenti coreografici di Thomas Wilhelm.
Musicalmente il primo dei due miracoli è compiuto in buca dove, a calibrare e a governare con polso espertissimo per stile e tempra l’intero ventaglio di metri, ritmi, timbri e dinamiche c’è il super specialista del Barocco Rinaldo Alessandrini, alla guida di un organico composito e complesso formato dai professori dell’Orchestra dell’Opera di Roma (si citano d’obbligo e per bravura almeno il primo violino Vincenzo Bolognese, Michele Chiapperino al primo violoncello, Pietro Meldolesi al primo flauto dolce, Gianfranco Bartolato al primo oboe e Carmine Pino al primo corno), da un basso continuo formato da cembalo (Ignazio Maria Schifani), violoncello (Andrea Noferini) e tiorbe (Francesco Tommasi e Michele Carreca) più Sinfonia di vari strumenti con due violini, viola, violoncello, con l’ottimo Fabio Morbidelli al fagotto, oboe, arpe (Roberta Inglese), viola da gamba e tiorba.
L’altra combinazione stupefacente si ritrova in scena con le voci, fra le massime, di un cast a quattro controtenori più il contralto barocco per antonomasia, Sara Mingardo, infortunatasi alla caviglia durante il primo atto della seconda recita ma stoicamente rimasta in scena fino al termine dello spettacolo.
Per il primo uomo Cesare, ruolo di punta fra i diciassette händeliani creati per il Senesino, c’è il “baroque hero-baroque star” Raffaele Pe che sfodera variazioni staccate a fuoco e fiamme nelle arie eroiche o di vendetta al pari di uno stile di rara nobiltà nelle sortite di sentimento. Stupefacenti le sue acrobazie canore in “Empio, dirò, tu sei” dinanzi al capo mozzo di Pompeo chiuso nella scatola di legno striata di sangue offertagli in dono da Tolomeo, intenso nelle arie di seduzione “Non è sì vago e bello” e “Se in fiorito e ameno prato”, ricco di ombreggiature nell’aria di paragone con corno obbligato “Va tacito e nascosto”, prorompente nell’aria di guerra “Al lampo dell’armi”.
Al suo fianco convince meno la Cleopatra del giovane soprano Mary Bevan, Cleopatra pur di bel timbro levigato e luminoso ma non sempre proiettato con vigore. E dunque fa non poca fatica a tener testa alle impervie peripezie all’acuto da usignolo imposte alla linea di canto scritta per una star händeliana quale fu la Cuzzoni. Scenicamente a suo agio nel dar forma a una condotta fra il brioso-brillante e il serio, la vocalità della Bevan resta per lo più ancorata a una contenuta dolcezza seicentesca, alla Purcell. In ogni caso il suo “Tutta può donna vezzosa” o l’aria di seduzione sotto le mentite spoglie della serva Lidia (V’adoro pupille) sfoggiano grazia e carattere non comuni. Buona la resa nell’intensissima aria “Piangerò la sorte mia” che cuce, fra le rispettive sezioni A e B, lamento con catene e aria d’ombra. Viceversa non decolla nel suo apice in preghiera “Se pietà di me non senti”, anche per le difficoltà di emissione nell’iniziale posizione distesa, né nell’ancor più difficile “Da tempeste il legno infranto”.
Il Tolomeo re fellon ed empio del secondo controtenore in lista, Carlo Vistoli, è poi un personaggio veramente a sé: infantile e imprevedibile, violento, incestuoso, schizoide. Un carattere che l’interprete ritaglia con grande pertinenza ed efficacia, brillando in particolar modo nell’aria di sdegno “Sì spietata, il tuo rigore” e nell’arrogante “Domerò la tua fierezza”. Ancor più sorprendente è il terzo controtenore del cast, nella parte di Sesto, figlio di Cornelia e Pompeo. È l’americano classe 1995 Aryeh Nussbaum Cohen, voce morbida, intensa, potente e, soprattutto di autentica tempra contraltile, senza ombra di falsetto. Impressionante. A ciò si aggiungano l’intonazione impeccabile, l’omogeneità di pasta, la tecnica ferrea e una sensibilità che lo porta effettivamente a forgiare il punto più alto dell’opera, in duetto con la madre in chiusura del primo atto da libretto originale. La maturazione e la presa di coraggio del giovane personaggio portano infine, in ulteriore climax di qualità, all’aria di vendetta “La giustizia ha già sull’arco”.
Perla ancor più alta della produzione, come accennato, è la Cornelia del contralto Sara Mingardo. Per velluto e volume, per la commovente bellezza dei suoi lamenti. Uno spettacolo nello spettacolo: moglie rigorosa (l’ombra di Pompeo l’accompagna costantemente) e madre amorevole orgogliosa quando il figlio si fa vendicatore del padre.
Convincenti e apprezzabili infine le prove del quarto controtenore, Angelo Giordano voce lucente per Nireno, e dei due baritoni Patrizio La Placca e Rocco Cavalluzzi rispettivamente Curio ed Achilla.
Lunghi e scroscianti applausi per tutti gli artisti al proscenio.
Teatro dell’Opera – Stagione d’opera e balletto 2022/23
GIULIO CESARE IN EGITTO
Dramma per musica in tre atti
Libretto di Nicola Francesco Haym
da Giacomo Francesco Bussani
Musica di Georg Friedrich Händel
Giulio Cesare Raffaele Pe
Cleopatra Mary Bevan
Sesto Pompeo Aryeh Nussbaum Cohen
Cornelia Sara Mingardo
Tolomeo Carlo Vistoli
Achilla Rocco Cavalluzzi
Curio Patrizio La Placa
Nireno Angelo Giordano
Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma
Direttore Rinaldo Alessandrini
Regia Damiano Michieletto
Scene Paolo Fantin
Costumi Agostino Cavalca
Luci Alessandro Carletti
Movimenti coreografici Thomas Wilhelm
Nuovo allestimento Teatro dell’Opera di Roma
in coproduzione con Théâtre des Champs-Élysées, Parigi,
Oper Leipzig, Opéra Orchestre National de Montpellier – Occitanie,
Capitole de Toulouse.
Roma, 15 ottobre 2023