Vite violente, deviate, emarginate, spezzate, che ci appartengono più di quanto si possa immaginare. Ben oltre le mura asfittiche di una qualunque casa circondariale dell’Otto-Novecento o dei nostri giorni, siberiana, americana o di altro luogo che sia, arrivando a incidere, fuori da quelle grate e pareti, suggestioni e dinamiche in radiografia e a coscienza della nostra stessa società, agganciandone la contemporaneità grazie alla verità di una narrazione teatrale poggiata, in primis, sui pentagrammi entro un coacervo di segni di rara modernità e plasticità di espressione. E, in contrappunto, sull’intelligenza degli esatti interventi registici che coniugano con mano esperta realtà e scavo psico-sociale, teatro e metateatro, drammaturgia scenica e contenuti sonori.
È quanto restituisce l’ultimo capolavoro teatrale di Leoš Janáček, ossia la breve ma potente opera-testamento Da una casa di morti (Z Mrtvého Domu) composta su libretto dello stesso musicista ceco traendo spunto dalle omonime memorie romanzate di Dostoevskij sulla vita dei detenuti in un campo di prigionia in Siberia, dove il celebre scrittore russo era stato rinchiuso per quattro anni, in special modo stando alla rilettura proposta in prima italiana al Teatro dell’Opera di Roma. A potenziarne la forza d’impatto e l’attualità, fermo restando l’alto pregio della visione musicale, è difatti la notevolissima regia dell’artista polacco, già Premio Europa e Leone d’Oro alla Biennale Teatro di Venezia, Krzysztof Warlikowski, al suo debutto per la lirica in Italia analogamente al parimenti più che meritevole Dmitry Matvienko, giovane direttore bielorusso Primo Premio e Premio del Pubblico alla Malko Competition di Copenaghen, nell’occasione sul podio di Orchestra e Coro della Fondazione capitolina.
Lo spettacolo, realizzato in coproduzione con la Royal Opera House Covent Garden di Londra, il Théâtre de La Monnaie di Bruxelles e l’Opéra National de Lyon avvalendosi della coesa drammaturgia di Christian Longchamp, delle scene e dei costumi ben funzionali di Małgorzata Szczęśniak, delle luci di Felice Ross, dei video di Denis Guéguin e dei significativi movimenti coreografici di Claude Bardouil, è andato inoltre a costituire la tessera centrale del progetto triennale dedicato dal Lirico romano al compositore Janáček, dopo il successo della Káťa Kabanová della precedente stagione e l’annuncio di Jenůfa alla prossima, nel maggio 2024. Janáček che non solo è nome di massimo interesse del Novecento storico in debita riproposta in un teatro ormai di punta in Italia per sapienza di programmazione e gestione ma anche, in virtuale collegamento con la sede lirica romana, promotore di nuovi linguaggi pronto a riconoscere e a elogiare ampiamente in sede di recensione nel 1892 “il progresso armonico e tonale” del giovanissimo Mascagni esordiente due anni prima quale operista vincitore di concorso proprio al Teatro Costanzi, con la sua più celebre Cavalleria rusticana.
Uno spettacolo che ci appartiene, si diceva. Intanto per il taglio critico e aggiornato, in linea centrata con la stessa cifra della musica di Janáček ma, anche, per l’esatta messa a fuoco di una galleria di gesti e immagini, di vizi e colpe, da cronaca di tutti i giorni. Infatti, sul fondale a pannelli metallici che è schermo e al contempo parete della prigione (qui americana più che gulag), si vede in prima battuta durante l’introduzione orchestrale l’intervista silente e sottotitolata al filosofo francese Michel Focault sul sistema carcerario e sulla relativa utilità economico-politica della criminalità. Proiezione (farà seguito un secondo video sul senso della vita e della morte per un carcerato) che lascia presto il campo a una carrellata sui diversi casi umani emblema, ciascuno, di un diverso capo d’imputazione e violenza, così come narrato dinanzi al nuovo detenuto arrivato ma, qui, in un contesto osservato come nello scorrere di una moderna quotidianità, di pari valenza intra ed extra moenia.
Nel buio si ode ad esempio il palleggio di un detenuto che inganna la solitudine e il tempo tirando al canestro, nel box-ufficio di fianco c’è il Comandante direttore del carcere (l’ottimo basso Clive Bayley, già applaudito al Costanzi nel ruolo eponimo del Julius Caesar di Giorgio Battistelli, difatti in sala) che svolge le sue sadiche repressioni di rito mentre, sulla destra, colpisce fra il grigiore dominante il verde vivo del campo di calcio su tv d’ultima generazione mandando in onda una partita di routine. Poi, gruppetti di detenuti che si incontrano e scontrano fra gesti ambigui, zuffe violente, offese in slang carcerario. E da lì, in sequenza, prendono man mano il via le diverse azioni “bozzetto”, passando dalla volgare tracotanza del grande prigioniero interpretato con pregnanza dal tenore americano Erin Caves alla nobilissima statura scenica e canora del condannato politico fresco arrivato (l’aristocratico Alexandr Petrovič Gorjančikov), accolto da cento colpi di frusta e magnificamente interpretato con tempra da fuoriclasse dal basso-baritono Mark S. Doss, tornato sullo stesso palcoscenico dopo The Bassarids di Hans Werner Henze del 2014. E ancora, dal popolareggiante affondo narrativo-coreutico del ciabattino Skuratov dell’assai efficace tenore Julian Hubbard (anche lui nel cast del Julius Caesar romano, come Cassius) al plastico racconto di Luka Kuyzmič (Filka Morozov) affidato al talentuoso tenore Štefan Margita. Peculiare e ben curato inoltre il tributo agilmente giocato anche sul transfert femminile dal tenore Pascal Charbonneau nel ruolo del giovane tartaro Aljeja, di vistoso ma sempre garbato impatto il breve ruolo della prostituta, molto all’americana, garantito con timbro svettante e spiccata personalità dal mezzosoprano canadese Carolyn Sproule, unica voce femminile sul palco, di grande intensità la tragica e lunga storia narrata all’atto terzo dal Šiškov del basso Leigh Melrose. Curate ad arte, inoltre, le due pantomime metateatrali organizzate all’atto secondo per le feste pasquali trasformando il gabbiotto del Comandante in ribalta per la recita di Kedril e Don Giovanni più La Bella mugnaia, complici il vivace Aleš Jenis (Il fabbro/Un prigioniero) che dà forma al libertino, quindi al bramino, e un Marcello Nardis perfettamente impegnato nella parte di Kedril.
Completano il cast Pawel Żak (Il giovane prigioniero), Michael J. Scott (Šapkin), Christopher Lemmings (Čerevin) e Colin Judson (Il vecchio prigioniero), Lukáš Zeman (Il piccolo prigioniero Nikita/Čekunov/cuoco) ed Eduardo Niave (il prigioniero ubriaco) di “Fabbrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma.
Nel quadro complessivo della carrellata di parti più che di personaggi, al Coro maschile preparato con lucida prestanza ritmica e suggestiva sensibilità timbrica dal maestro Ciro Visco spetta una speciale menzione per la preziosa cornice intagliata fra l’annuncio stentoreo dei prigionieri all’arrivo del nuovo ospite, il canto interno lontano, avvolgente, e la chiusa dei forzati che s’innalza verso il cielo, declamando più volte la libertà.
Una gran quota nella responsabilità narrativa e di confezione ai fini drammatici va infine riconosciuta all’ottimo talento del direttore classe 1990 Dmitry Matvienko, musicista generoso nelle dinamiche e nei colori quanto attento al rigore della lezione epurata secondo l’edizione critica curata nel 2017 dal musicologo inglese John Tyrrell e da Charles Mackerras. Alla guida di un’Orchestra precisa e ben duttile in tutte le sue sezioni (molto bene l’intera squadra dei fiati e le percussioni ripensate ad hoc) nel far risaltare l’estrema molteplicità di risorse della non facile scrittura dell’opera, Matvienko espone nei serrati novantacinque minuti dell’opera con dovizia l’azione e ben sostiene le diverse sortite del canto in declamato spingendo ora sulle tensioni modali, ora sulle spigolosità dinamico-timbriche, caricando le strette metriche, garantendo i giusti accenti alle tirate ironiche e circensi, esaltando sapore e colore nelle inflessioni nazional-popolari. Ne risulta una tavolozza amplissima, fatta di sonorità concrete e taglienti per le tante impennate di forza quanto aperta agli scorci struggenti di lì a breve cesellati a quattro archi per i pentagrammi imminenti e al tramonto delle “Lettere intime”.
Al termine consensi più che dissensi (pur consistenti ma andati a colpire, più che altro, la regia se non lo spettacolo in sé) e tanti gli applausi tributati al direttore d’orchestra come all’intero gruppo dei cantanti.
Lo spettacolo, ripreso da RaiCultura, sarà trasmesso su Rai5 il prossimo 16 novembre alle ore 21.15.
Teatro dell’Opera – Stagione 2022/23
DA UNA CASA DI MORTI
Opera in tre atti
Libretto di Leoš Janáček da Memorie da una casa di morti di Fëdor Dostoevskij
Musica di Leoš Janáček
Alexandr Petrovič Gorjančikov Mark S. Doss
Aljeja, giovane tartaro Pascal Charbonneau
Filka Morozov (in prigione sotto il nome di Luka Kuzmič) Štefan Margita
Il grande prigioniero Erin Caves
Il piccolo prigioniero Nikita/ Čekunov/il cuoco Lukáš Zeman
Il direttore della prigione Clive Bayley
Skuratov Julian Hubbard
Kedril Marcello Nardis
Il fabbro/un prigioniero (interprete di Don Giovanni e del Bramino) Aleš Jenis
Il giovane prigioniero Pawel Żak
Una prostituta Carolyn Sproule
Šapkin Michael J. Scott
Šiškov Leigh Melrose
Čerevin Christopher Lemmings
Il vecchio prigioniero Colin Judson
Il prigioniero ubriaco Eduardo Niave*
*dal progetto “Fabbrica” Young Artisti Program
del Teatro dell’Opera di Roma
Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma
Direttore Dmitry Matvienko
Regia Krzysztof Warlikowski
Maestro del coro Ciro Visco
Drammaturgo Christian Longchamp
Scene Małgorzata Szczęśniak
Luci Felice Ross
Video Denis Guéguin
Movimenti Coreografici Claude Bardouil
Nuovo allestimento Teatro dell’Opera di Roma
in coproduzione con Royal Opera House Covent Garden, Londra,
Théâtre de La Monnaie Bruxelles, Opéra national de Lyon
Roma, 27 maggio 2023