Roma, Teatro dell’Opera – Aida

C’è tanto Verdi nella resa eccellente di Orchestra e Coro della Fondazione capitolina tra squarci sonori grandiosi e filigrane impalpabili che saldano al meglio e ben tengono insieme voci tecnicamente diverse ma, alla linea dei conti, funzionali allo stile e valenti per calibro. D’altro lato, al Teatro dell’Opera di Roma con il nuovo allestimento ripensato e firmato da Davide Livermore in rodata squadra con Giò Forma che realizza le scene essenziali, Gianluca Falaschi per i costumi di mera fibra teatrale, Antonio Castro per le luci a effetto e con D-Wok per le suggestioni in video, in scena certamente non c’è la solita Aida. O meglio, escluso in partenza l’intero baule di palme, piramidi, elefanti e quant’altro, non ci si ritrova dinnanzi all’opera obbediente all’immaginario faraonico con la sua abbagliante sfilata in trionfo durante la Marcia – presente all’ascolto, statica allo sguardo – con tanto di danze dalle linee oleografiche ed esotiche, i suoi vivaci moretti in circolo (qui a mezza via fra i sauvages di Rameau e le willi guerriere di Maryse Delente per il Ballet du Nord). Né, tantomeno, quella divisa fra i corpi dorati del popolo egizio e gli etiopi dalla pelle brunita come da razza, storia e libretto. Anche perché, in tale occasione, la pelle è bianca per tutti, vera o dipinta che sia, a dispetto e risposta contro il blackface.

Saltando dunque a piè pari ogni eventuale intenzione archelogica così come per fortuna evitando elucubrazioni di segno iper-contemporaneo, la rilettura raccontata da Davide Livermore in scena sembra abbia optato piuttosto per una terza via, lavorando per diventare essa stessa funzione drammaturgico-musicale e, dunque, chiave di volta a disamina fra generi, epoche e dinamiche relazionali, personali e di popolo. Di qui il risultato di un’Aida volutamente percepibile come ricostruzione e che, in probabile aggancio romano, sembra uscita di fresco da un set di Cinecittà, con qualche link che assomma suggestioni da piccolo o grande schermo stile Miss Fisher, fantascienza stellare o la finta Atlantide in cui finiscono Aroldo Tieri e Totò tentando la legione straniera. Pertanto, innegabilmente originale quanto a filtraggio di stili e forme in disamina entro il suo essere posticcio persino nel taglio più evidente sugli anni Venti radicati nel primo colossal del muto, stando al modello indicato dal regista e qui pure autore delle coreografie, finite nel bersaglio unico di qualche sonoro dissenso al termine della première. Ossia, l’italianissima Cabiria (1914) di Giovanni Pastrone, con intertitoli griffati da Gabriele d’Annunzio, che va a unirsi con tante altre sollecitazioni in rassegna e a decoupage. Si va dal Kubrick del grande monolito su sabbia nera (qui tinto d’oro e cangiante anticipando o riproducendo didascalicamente immagini ed eventi, in metafora o concreti) alle stringhe di Matrix (qui però con geroglifici d’obbligo) e alla gestualità per le danze ora un po’ charleston alla Baker e Clara Bow, ora in geometrica postura bellica o, ancora, in movimenti da mummia simil clip con gli zombie di Thriller.
La scena in effetti è semplice e a suo modo monumentale. Effettivamente un po’ ridondante nella proiezione delle fontane di sabbia che fanno il paio con il cubo d’oro nel ricordare la Mostra d’Oltremare di Napoli. O, ancora, prevedibile nel groviglio di serpi in abbinamento all’antagonismo di Amneris, nell’incipit prolettico sullo svaporare in solitudine del corpo dell’eroe sepolto vivo, un po’ soap nel fulgore finale a luce bianca che nella morte affianca ma poco unisce le silhouettes dei due amanti di opposta stirpe. Ma c’è da dire che la scena del gran giudizio dinnanzi ai sacerdoti sanguinari (atto IV, quadro primo), è sublime. Perfetta e potente quanto a geometria e luminosità rosso vivo nel buio della sala sotterranea delle sentenze, così come imponente è la discesa “ex machina” di Amneris che incombe dolente, dall’alto della trave d’acciaio con doppio delta capovolto, sulla sepoltura di Radamès al fianco di Aida. Nel complesso, il tutto è originale e funziona.

Il grande cuore di questa Aida romana batte però a tutta forza e con sensibilità davvero speciale grazie alle compagini artistiche di casa e, naturalmente, in virtù del lavoro realmente eccelso messo a segno dai relativi vertici musicali. Per il neonominato direttore dell’Orchestra dell’Opera di Roma, Michele Mariotti, già particolarmente apprezzato sul podio dell’Aida in piazza del Plebiscito a Napoli nell’estate 2020 ma in forma di concerto e per giunta en plein air (vedi qui la recensione), oltre il precedente in allestimento scenico ma in streaming e senza pubblico in piena clausura pandemica, era di fatto la prima esecuzione del titolo in teatro con sala piena in presenza. Ulteriormente confermando quanto già riconosciuto due anni e mezzo fa, il suo è un ultimo Verdi restituito a briglie drammatiche tese nella consapevolezza della modernità delle soluzioni formali e attraverso la mirabile cura sonora di ogni introspezione espressiva. Il suo gesto rigoroso e vigoroso al contempo colpisce naturalmente per la forza con cui rende avvincenti le dinamiche sfogate a piena orchestra, per le plasticissime marcature degli accenti teatrali, per lo scatto dei ritmi puntati. Ma, ancor di più, si rivela prezioso nella ricerca degli equilibri impressionanti fra i piani sonori e le diverse voci, nel calibrare l’intera gamma dei vari gradi di “piano”, nelle sfaccettature molteplici di un’agogica costruita con arte e intelligenza fra i preziosi rubati, le trasparenze dolcissime, le opulenze e opalescenze di suono. Mai cedendo tra l’altro agli eccessi trionfalistici (impeccabili le sei trombe egizie in scena) e finanche cercando una salda linea d’intesa con l’aggiornata rilettura visiva dell’allestimento di Livermore. Ne risultano pertanto quadri diversi quanto di pari efficacia come il Preludio d’apertura, di delicatissima tempra meditativa, la grande scena della consacrazione (Immenso Fthà) dalle flessuose linee arabescate, l’attenzione alla peculiarità di tratto nello stile e suono dei vari ruoli, il grande arco drammatico che lega terzo e quarto atto.
L’altra quota delle lodi spetta al nuovo maestro del Coro Ciro Visco, alla sua terza impresa dopo il mirabile Poulenc dei Dialogues e il vivace Elisir donizettiano. Non solo massa e volume, ma vero e proprio elemento deuteragonista si rivela il suo Coro di volta in volta giocato con tutte le sfumature necessarie in campo militare, rituale, giudiziale. A lama e portentoso nel suo doppio impeto delle sezioni maschili è il Coro di sacerdoti, ministri e capitani al grido della guerra, di smalto la sezione femminile nel canto delle sacerdotesse, un vero capolavoro di dinamiche e cromìe il Coro dei sacerdoti nel ferale velo di voci su cui poggiano i deragliamenti a fuoco vivo di Amneris.

Dell’Aida ritagliata dal soprano bulgaro Krassimira Stoyanova, a oggi fra le migliori interpreti del ruolo, si apprezzano il colore e l’intensità di un lirismo dai filati lucenti, dolce e potente entro un’ampia estensione che brilla per la bellezza dei suoni dal centro in su. Per quanto la sua voce tenda purtroppo a coprire e a impastare la perfetta intelligibilità dei versi di Ghislanzoni, la sua schiava di pelle bianca mostra fierezza e autenticità di sentimenti nella voce prima ancora che nel gesto, d’impatto nella scena “Ritorna vincitor”, luminosissima nella Romanza al terzo Atto (“O cieli azzurri”, di cui spiace il solo ultimo acuto lasciato vibrare in gola), svettante negli assieme accanto alla rivale, al padre Amonasro, con Radamès.
Riconosciuta leonessa nella parte di Amneris, il mezzosoprano Ekaterina Semenchuk sembra invece partire al risparmio, udendosi poco nel duetto del primo Atto “Forse l’arcano amore”. A seguire la sua prova è tutta in crescendo con vertici non solo di vigoria drammatica ma anche di un sentimento ben più umano del solito. Agguerrita e la più verdiana in campo al cospetto della rivale Aida (Fu la sorte dell’armi), superba nel duetto con Radamès “Già i sacerdoti adunansi” e ancor di più nella citata scena del giudizio con il Coro.
Parimenti giocato lungo il corso degli eventi è il Radamès del fenomeno tenorile Gregory Kunde, reclutato all’ultimo in luogo del previsto Fabio Sartori e confermatosi gran guerriero vincitore grazie al trionfale dominio sulla parte e della voce. La sua sortita in recitativo fa temere il peggio per qualche iniziale sgranatura. Poi si scalda e prende quota già dalla più celebre romanza (Celeste Aida), sfoderando con rara bellezza un colore che ha pochi uguali e un governo esperto del fraseggio che trova i momenti più felici nella nobiltà del legato e nella proiezione di petto sul fiato. Tutti esatti gli squilli vibrati all’acuto e anche per lui climax dell’interpretazione nei due atti finali dell’opera.
Di cifra salda e luminosa è l’Amonasro del baritono Vladimir Stoyanov, imponente per voce e statura è il Ramfis di Riccardo Zanellato, intensamente stentoreo è il Re d’Egitto di Giorgi Manoshvili. Un plauso speciale va all’ottima sacerdotessa di Veronica Marini e bravo anche il Messaggero di Carlo Bosi.
Vivi applausi per tutti gli interpreti in corso d’opera e in chiusa, entusiasmi per Mariotti e Visco, qualche sonoro buh ma solo per i mimi danzatori delle coreografie firmate Livermore. [Rating:3.5/5]

Teatro dell’Opera di Roma – Stagione 2022/23
AIDA
Opera in quattro atti
Libretto di Antonio Ghislanzoni
Musica di Giuseppe Verdi

Il Re Giorgi Manoshvili
Amneris Ekaterina Semenchuk
Aida Krassimira Stoyanova
Radamès Gregory Kunde
Ramfis Riccardo Zanellato
Amonasro Vladimir Stoyanov
Sacerdotessa Veronica Marini
Messaggero Carlo Bosi

Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma
Direttore Michele Mariotti
Maestro del coro Ciro Visco
Regia Davide Livermore
Scene Giò Forma
Costumi Gianluca Falaschi
Luci Antonio Castro
Video D-Wok

Nuovo allestimento Teatro dell’Opera di Roma
Roma, 31 gennaio 2023