È ormai quasi una tradizione che, ogni anno, il Teatro Municipale di Piacenza e il Comunale di Modena (con eventuali altre riprese lungo la via Emilia) portino in scena un’opera del cosiddetto verismo musicale (per quanto questa definizione possa spesso essere contestata) affidata alla bacchetta di Aldo Sisillo (che a Modena è anche direttore artistico). Quest’anno, prima a Piacenza e a breve a Modena, tocca a Fedora di Umberto Giordano, un titolo che di recente è particolarmente tornato in auge nei teatri italiani.
Ora, Fedora è un’opera complicata da mettere in scena. C’è il giallo e l’investigazione di polizia, la spy-story e gli intrighi politici, le facezie dell’aristocrazia, ma ci sono anche gli eroi melodrammatici per eccellenza dei drammi di Sardou. Il tutto in tre ambientazioni diverse che hanno in comune tra loro solo lo spirito da belle époque che pervade l’opera — peraltro di breve durata, meno di due ore di musica, in cui tutto deve accadere rapidamente. È chiaro che, per convincere lo spettatore in questa vicenda non basta lasciar cantare i protagonisti su uno sfondo. E infatti, l’edizione Sonzogno della partitura riporta nelle prime pagine delle dettagliatissime note di regia, in cui sono minuziosamente indicati tutti i movimenti richiesti ai cantanti e la disposizione dei personaggi e degli oggetti in scena. Questo non impedisce che sia apprezzabile anche una messinscena, come quella firmata da Pier Luigi Pizzi, tutta all’insegna della semplicità. In scena c’è pochissimo: qualche poltrona, qualche mobile, e delle proiezioni sullo sfondo richiamano i tre paesaggi (dovremmo qui aprire una parentesi sulle proiezioni nelle regie di Pizzi: come già nei recenti Lombardi di Parma, anche qui la qualità della grafica digitale lascia davvero un po’ a desiderare). Poche persone in scena, quasi sempre solo i protagonisti: la festa parigina non sembra molto frequentata, i domestici di Vladimiro entrano tutti assieme ed escono tutti assieme, l’azione è sempre in primo piano e chi sta invece in secondo piano è inesorabilmente fermo, quasi spettatore di ciò che sta accadendo. Tutto è incentrato sulla coppia Fedora-Loris, e va bene, ma per catapultare davvero il pubblico nell’atmosfere ora thriller ora spensierate ora di nuovo tragiche dell’opera serve ben altro. Insomma, manca una chiave di lettura originale dell’opera.
La scelta invece davvero originale di questa produzione piacentina e, va detto, decisamente indovinata, è quella di affidare il ruolo della protagonista a un mezzosoprano a tutti gli effetti, Teresa Romano, a suo massimo agio nel registro grave in cui la parte di Fedora insiste a lungo. Spinge quindi sul lato più drammatico del personaggio, con un canto decisamente verista (con qualche incursione nel parlato) che privilegia le sonorità più scure, ed è davvero convincente (e credibile, che in Fedora non è cosa banale) nel rappresentare le forti passioni e l’impeto dell’eroina di Sardou. Gli acuti (compresa la salita al do facoltativa) sono ovviamente più coperti, ma non è un problema, se si rispetta il carattere pensoso e tormentato di Fedora, anche nei momenti più gioiosi trascorsi con Loris nell’Oberland bernese, in cui comunque incombe il senso di colpa di Fedora, che del tradimento di cui è colpevole è pur sempre consapevole.
Luciano Ganci (Loris Ipanov) raccoglie subito grande successo tra il pubblico con un “Amor ti vieta” stentoreo e squillante, con una certa tendenza all’apertura delle vocali, a scapito della precisione, il che è in linea con la sfrontatezza del personaggio. Meglio ancora nei duetti con Fedora, tra la confessione nella prima parte del secondo atto e nel racconto dell’assassinio (“Mia madre, la mia vecchia madre”), dove il tenore riesce a rendere il crescendo emotivo (e musicale) fondamentale per la riuscita della scena. Nel complesso, comunque, l’ampiezza vocale di Ganci sottolinea l’irruenza e, un po’, l’ingenuità di un Loris che finirà inesorabilmente nella trappola tesa da Fedora.
L’annunciata indisposizione di Simone Piazzola (De Siriex) impedisce un giudizio equanime sull’esecuzione. Visibilmente sofferente, ha portato a termine la recita mancando non di potenza vocale, ma di precisione nell’emissione. Peccato, perché ne “La donna russa” si capiva l’intenzione di giocare con gli stilemi russeggianti dell’aria, e in generale si è intravista la capacità di sostenere un ruolo che dev’essere leggero nelle rapide battute ai limiti del comico e acquisire immediatamente un aspetto completamente diverso nel narrare la tragedia della famiglia Ipanov (“Il vecchio tigre”).
Nei panni di Olga Sukarev Yuliya Tkachenko, con una voce gelida (forse un po’ troppo) e con una certa facilità in acuto funge da perfetto contraltare rispetto alla voce scura di Fedora. È una contessa che sembra, comunque, sempre un po’ annoiata (ed è giusto così, è scritto anche nel libretto) e a volte poco convinta — “Il parigino è come il vino” non è frizzante come lo champagne della Veuve Cliquot. Peccato che nel terzo atto subisca il taglio (secondo tradizione) dell’aria della bicicletta (“Se amor ti allena”): l’avremmo ascoltata volentieri cimentarsi nelle agilità richieste (e poi, in mancanza dell’aria, non si capisce la battuta finale della scena di De Siriex sul rapimento in bicicletta!)
Ivan Maliboshka (che è anche il maestro collaboratore della produzione) è un credibile Boleslao Lazinski. Bella l’idea di lasciare che, come introduzione del secondo atto, il valzer venga eseguito una prima volta dal pianoforte solo. Maliboshka, da bravo nipote e successore di Chopin lo interpreta con notevole rubato proprio nello stile dei valzer del compositore polacco, prima di lasciare che l’ingresso dell’orchestra apra le danze in scena. Tra i tanti comprimari, si distingue il basso-baritono William Corrò (Cirillo), magari non di grande potenza ma di sicura capacità teatrale nella testimonianza resa alla polizia.
La direzione di Aldo Sisillo, alla guida di una non impeccabile Orchestra Filarmonica Italiana, è sicura e professionale. Non mette in difficoltà i cantanti, non esagera nei volumi (e nelle partiture di Giordano non è facile), ma non si può nemmeno dire che apporti una grande originalità di lettura dell’opera. C’è comunque una certa ricerca di sonorità tetre nell’atto russo in contrasto con le feste parigine, e, nel finale, di un’atmosfera un po’ plumbea, in contrasto con il locus amoenus delle Alpi svizzere. Corretti gli interventi del coro del Municipale preparato da Corrado Casati.
Nel complesso una buona rappresentazione dell’opera di Giordano accolta con entusiasmo dal pubblico, vocalmente solida ma non particolarmente innovativa dal punto di vista scenico. Si potrebbe tuttavia dire questo essere il ruolo tradizionale di teatri come quello di Piacenza e, in tal caso, l’obiettivo può dirsi raggiunto.
Teatro Municipale di Piacenza
FEDORA
Dramma di Victorien Sardou ridotto in tre atti
per la scena lirica da Arturo Colautti
Musica di Umberto Giordano
La Principessa Fedora Romazov Teresa Romano
La Contessa Olga Sukarev Yuliya Tkachenko
Il Conte Loris Ipanov Luciano Ganci
De Siriex Simone Piazzola
Dimitri Vittoria Vimercati
Un piccolo Savojardo Isabella Gilli
Desiré Paolo Lardizzone
Il Barone Rouvel Saverio Pugliese
Cirillo William Corrò
Borov Gianluca Failla
Gretch Viktor Shevchenko
Lorek Valentino Salvini
Nicola Neven Stipanov
Sergio Lorenzo Sivelli
Michele Giovanni Dragano
Boleslao Lazinski Ivan Maliboshka
Orchestra Filarmonica Italiana
Direttore Aldo Sisillo
Coro del Teatro Municipale di Piacenza
Maestro del coro Corrado Casati
Regia, scene e costumi Pier Luigi Pizzi
Luci e regista collaboratore Massimo Gasparon
Piacenza, 8 ottobre 2023