Il poderoso rullo di tamburi che inaugura la Sinfonia dalla Gazza ladra fa da sontuosa, trepidante introduzione al concerto che ha segnato il debutto di Rosa Feola al Rossini Opera Festival di Pesaro, con l’imprescindibile supporto dell’Orchestra Sinfonica G. Rossini affidata alle cure direttoriali di Sesto Quatrini, anch’egli al suo esordio pesarese. Proprio la bacchetta del giovane direttore romano è stata la più felice sorpresa dell’evento: particolarmente calzante era l’idea di proporre quattro sinfonie celeberrime – quelle di Tancredi, del Turco in Italia e di Semiramide, oltre a quella dell’opera semiseria – a far da battistrada ad altrettanti numeri musicali tratti dalle stesse opere e affidati al soprano. Seppur in ordine sparso, il percorso da Tancredi (1813) a Semiramide (1823) era stato immaginato per coprire l’intero arco creativo del Rossini italiano, dando conto di un’evoluzione formale che attiene tanto all’ambito squisitamente strumentale quanto a quello vocale.
L’attacco della Gazza ladra è di quelli che si ricordano: con i trilli sgranati tanto da dar conto del Maestoso marziale voluto in partitura, l’emozionante piglio militaresco delle percussioni, opportunamente posizionate ai lati dell’orchestra, a contrastare le scale di strumentini e corni. E però l’Allegro è intrigante: perché Quatrini non si sofferma sulla cantabilità degli archi, ma sottolinea quel pizzico di inquietudine che, rossinianamente, conduce a un crescendo magniloquente: sta tutto qui il segreto di un genere – come quello semiserio – che principia con grazia, finanche con disinvoltura, per lievitare verso la (apparente) catastrofe. C’è ironia, c’è aria di campagna nel pimpante dialogo tra oboi e flauti, ma poi subito s’insinua una storia più grande dei personaggi, un’epica degli ultimi che tracima, deflagra, esplode – con l’eleganza di chi ne conosce il lieto fine. Letture in punta di bacchetta, e che fanno ulteriormente apprezzare il contrasto che anima la Sinfonia di Tancredi. Il tono marziale si allenta nel prezioso impasto dei legni, che suona quasi affettuoso, carezzevole, garbato, prima dell’Allegro miniato dai clarinetti, che quasi tarda a raggiungere il crescendo finale perché preferisce attardarsi nel cullante gioco di gradi congiunti, prima di affrontare l’inesorabile apertura del sipario. E se l’incipit del Turco in Italia è occasione propizia per i torniti soli del corno di Enrico Barchetta e della tromba di Francesco Marconi, è indubbiamente la Sinfonia di Semiramide a costituire il vertice dell’approccio di Quatrini, attento a costruire una drammaturgia d’impatto fortemente teatrale sin dalla pagina d’apertura. C’è attesa e mistero nell’Andantino: il timbro grasso, brunito di fagotti e tromboni bassi racconta la discesa nei penetrali della reggia, che sarà fatale a Semiramide, ma soprattutto la ricerca interiore che anima i personaggi, in un gioco d’echi che sa d’improvvise lontananze e di pericolosi riavvicinamenti. E poi c’è il lato più squisitamente pubblico, ufficiale, in cui il progressivo inserimento degli strumenti sembra ruscellare dagli archi, moltiplicarsi, addensarsi in interrogativi che esaltano l’ordito dei legni, fino a un finale che, serratissimo nei tempi, si fa elettrizzante attesa dell’opera. Una tenuta esemplare, eccellente.
Più complesso è valutare i quattro interventi di Feola, che sembra affrontare il recital quasi in punta di piedi: monografico il programma, un solo abito per l’intero concerto (vien quasi da pensare alla «Squallida veste» di Fiorilla), tutto piumette alla Papagena. Ora un concerto serve proprio ad apprezzare le potenzialità di un artista, i suoi traguardi, il suo orizzonte d’attesa. Qui tutto è racchiuso in un nome, quello di Rossini: e Feola non è una rossiniana d’alto rango, o almeno speriamo non sia solo questo. Nel corso della sua carriera, infatti, ha affrontato Il viaggio a Reims, con Kent Nagano a Santa Cecilia, e poi i due titoli scaligeri, La gazza ladra e Il Turco in Italia, da cui ricava la metà del programma.
Cosa affascina del suo Rossini? Una dimensione di languore, di rimpianto del perduto amore. Lo scopre Ninetta, nella sua Cavatina, in cui si apprezza la cura con cui tratteggia gli ingenui interrogativi della ragazza («l’altro… l’altro… ah, che farà?») che la portano ad ammorbidire la coloratura con cui invoca il «Dio d’amor». Meno convince la cabaletta, più compassata di quella scaligera, in cui si apprezza la grande musicalità e l’eleganza naturale di uno strumento accattivante, anche se manca il graffio galvanizzante di quei «contenti» vagheggiati con apparente entusiasmo. Lo ricorda forse Fiorilla, in una sortita affrontata con il fiero cipiglio dell’eroina seria. L’omogeneità dell’emissione, fluida su tutta la gamma, le consente di giocare con civetteria, di ammiccare senza trascendere, di mantenere un contegno fintamente altezzoso: il rovescio di Fiordiligi, insomma, accorta nel costruire un destino che vedrà tutti gli uomini cadere ai suoi piedi.
Lo rimpiange Amenaide, ultimo ritratto tra quelli proposti. Allo scavo sulla parola di Feola ben si attaglia la Scena «Di mia vita infelice», di cui ben coglie il soffio quasi beethoveniano, pericolosamente in bilico con una sorta di vaneggiamento che si percepisce quando affiora il ricordo della maledizione paterna. Ma è un dolore passeggero, che si stempera nella Cavatina «No, che il morir non è», in cui il crescendo finale è sapientemente dosato fino alla chiusa, delicata, soavemente svaporata nella cadenza finale.
E poi c’è Semiramide. Che a tutta prima lascia francamente interdetti. Per il semplice fatto che Feola non è né regina né guerriera, e si capisce perfettamente che non vuol esserlo. La voce non dardeggia il «Bel raggio lusinghier», tanto meno il piacere suscitato dal ritorno di Arsace. Ma è amante. E proprio qui s’insinua la zampata dell’interprete, che ne fa una donna fragile, preda di insicurezze d’improvviso svanite – come lascia trapelare quel «come respirò!» che sembra veramente preludere a una rinascita. Lontana anni luce dai modelli conclamati, forse più vicina a una sensibilità moderna, contemporanea, tutta da costruire.
Resta il bis: uno, solo, e anche questo capace di disorientare. Arriva, peraltro, subito dopo la commossa dedica alla memoria di Renata Scotto, maestra con cui ha studiato, tra l’altro, La traviata. Intona la Romance di Mathilde dal secondo atto di Guillaume Tell, «Sombre fôret», in cui squaderna la salda uniformità, la compattezza di un legato forbito, nitido, terso. Il respiro panico della natura si riverbera nella sua voce, lasciando pregustare prospettive inedite, nel tempo che verrà.
Teatro Sperimentale – Rossini Opera Festival 2023
CONCERTO LIRICO-SINFONICO
Musiche di Gioachino Rossini
Rosa Feola soprano
Orchestra Sinfonica G. Rossini
Direttore Sesto Quatrini
Pesaro, 17 agosto 2023