Chissà cosa ne pensa il sottosegretario Vittorio Sgarbi, che ultimamente è intervenuto in più occasioni a proposito delle regie d’opera. Probabilmente, apprezzerebbe. Ci riferiamo alla regia di Mario Martone per Aureliano in Palmira, in scena al Rossini Opera Festival, che – come noto – prevede a un certo punto la presenza di vere capre sul palcoscenico (ben quattro!).
L’allestimento, creato nel 2014 per il piccolo spazio del teatro Rossini, è stato riadattato con significative modifiche al più ampio palcoscenico della Vitrifrigo Arena (il teatro è chiuso a causa dei danni provocati dall’ultimo terremoto). Le capre, animali tanto cari al critico d’arte prestato alla politica, sono state scelte da Martone per conferire maggiore pregnanza alla dimensione bucolica della scena che apre il secondo atto del capolavoro rossiniano. Così, accanto ai pastori che sostano in un deserto soleggiato, i placidi animali hanno fatto la loro comparsa per alcuni minuti, costituendo l’unico elemento di bizzarria (se escludiamo la presenza sul palco del maestro al cembalo) in una regia per il resto “tradizionale”, come direbbero i difensori della totale fedeltà alle indicazioni del libretto. In realtà, una regia illustrativa, perfettamente aderente allo spirito dell’opera, con tanto di costumi (di Ursula Patzak) stile “peplum” che rimandano al mitico passato in cui si svolge l’azione e con movimenti coerenti con quanto l’intreccio richiede. Nell’insieme, un’impostazione che sconta una certa staticità nel primo atto, ma che si anima e offre soluzioni non prive di suggestione nel secondo. Le scene di Sergio Tramonti e le luci di Pasquale Mari contribuiscono a costruire un quadro evocativo e piacevole a vedersi, che consente di concentrare l’attenzione del pubblico sulla musica. “Divina”: è lo stesso Rossini in una lettera a utilizzare questo aggettivo per tale capolavoro.
Musica davvero divina, quella di Aureliano in Palmira. Anzitutto, per la sapienza di scrittura di cui il giovane compositore fa sfoggio, anche in considerazione dell’importante occasione in cui l’opera andò in scena: l’inaugurazione della stagione di Carnevale del Teatro alla Scala nel 1813,i in un quadro politico in rapido cambiamento. Tanto che, sotto le spoglie dell’imperatore romano Aureliano e della sua clemenza, si cela nientemeno che Napoleone, alle ultime battute della sua straordinaria parabola (come spiega bene lo studioso Daniele Carnini nel saggio del programma di sala). Un’opera, questa, che si colloca sul crinale tra due mondi, il classico e il romantico, l’apollineo e il dionisiaco, ma vive di una struggente nostalgia dell’apollineo che, ormai, sappiamo bene essere il mondo al quale Rossini si sentiva di appartenere. Così, entro una architettura di classica e magniloquente compostezza (dettata anche dal libretto firmato da un giovane Felice Romani), Rossini scrive una musica davvero divina, non solo per la felice ispirazione melodica, ma pure per la elegantissima scrittura orchestrale e per la sua capacità di restituire i tormenti, le passioni e i sentimenti dei protagonisti con una verità che è insieme umana e trasfigurata, nel segno di una stilizzazione che la sottrae alla gravità del vivere per proiettarla nell’empireo.
A dispetto del fiasco della premiére (dovuto a ragioni contingenti, tra cui la non buona forma degli interpreti), Aureliano in Palmira ebbe una notevole circuitazione prima di sparire dai palcoscenici lirici. Già nel 2016 a Pesaro venne presentata in forma “super integrale” (se così si può dire), grazie al fatto che il lavoro degli studiosi ha restituito pagine che vennero tagliate dallo stesso compositore in occasione della prima assoluta. Opera lunga e articolata, dunque, con una drammaturgia debolissima (ma non è una novità) e che si regge di fatto sui tre protagonisti, chiamati a un vero tour de force vocale.
E qui brilla anzitutto la prova di Raffaella Lupinacci, chiamata a vestire i panni di Arsace, personaggio tanto inconsistente dal punto di vista drammaturgico (non ne imbrocca una dall’inizio alla fine), quanto dotato di una musica meravigliosa. Il timbro scuro e morbido del mezzosoprano calabrese, il suo notevole volume, la fine sensibilità dell’interprete sortiscono un ritratto vivido del protagonista, sia nella sua dimensione eroica, che in quella dell’amante. Il controllo del fiato, la nitidezza della coloratura, il ventaglio di colori: tutto concorre ad una prova maiuscola. Peraltro, Rossini scrive per Arsace e per l’amata Zenobia due duetti che sono quanto di più bello abbia partorito il genio del pesarese. Il secondo duetto, in particolare, ha una estenuata e vibrante dolcezza che fa pensare davvero a quella “musica dell’avvenire” (leggi Tristano e Isotta) di cui tanto si parlava nell’Ottocento e che compare citata sullo spartito che il compositore ha in mano nel celebre ritratto che gli fece Francesco Hayez nel 1870. Come a dire: a dispetto di tutto quanto è accaduto e potrà ancora accadere in musica, questo signore la “musica dell’avvenire” l’ha già scritta.
La Zenobia di Sara Blanch fa leva su una voce chiara e agile, non particolarmente voluminosa ma duttile e animata da una notevolissima musicalità, che le consente di affrontare con pregevole disinvoltura il virtuosismo stellare della scrittura. Ciò che a volte manca alla recitazione è una maggiore consistenza tragica (che non difetta invece a Lupinacci), dovuta forse a una voce che ha nel registro medio alto le sue migliori qualità. Il tenore Alexey Tatarintsev affronta con sicurezza di acuti e buon volume il difficile ruolo di Aureliano, con un fraseggio apprezzabile e vario (pur se la dizione può migliorare). Molto bravi tutti gli altri personaggi: la sensuale Publia di Marta Pluda, dalla voce morbida e rotonda, il Gran Sacerdote austero e tonante di Alessandro Abis, il protervo Licinio di Davide Giangregorio, Sunnyboy Dladla (Oraspe), Elcin Adil (un pastore).
Dal podio, George Petrou dipana con morbidezza d’eloquio le trama di una scrittura orchestrale raffinatissima e propende per una lettura analitica della partitura rossiniana, della quale enuclea, come da un forziere, le innumerevoli gemme timbriche e melodiche. Ciò che a volte manca è un più incisivo incedere teatrale. Apprezzabile la prova del coro, istruito da Mirca Rosciani, che in quest’opera ha due pagine di leopardiana bellezza, proprio quando, a inizio secondo atto, compaiono le capre e i beduini del deserto invocando la pace (tema di perenne attualità).
Rossini Opera Festival 2023
AURELIANO IN PALMIRA
Dramma serio per musica in due atti Libretto di Giuseppe Felice Romani
Musica di Gioachino Rossini
Edizione critica della Fondazione Rossini, in collaborazione con Casa Ricordi,
a cura di Daniele Carnini e Will Crutchfield
Aureliano Alexey Tatarintsev
Zenobia Sara Blanch
Arsace Raffaella Lupinacci
Publia Marta Pluda
Oraspe Sunnyboy Dladla
Licinio Davide Giangregorio
Gran Sacerdote Alessandro Abis
Un Pastore Elcin Adil
Orchestra Sonfonica G. Rossini
Direttore George Petrou
Coro del Teatro della Fortuna
Maestro del coro Mirca Rosciani
Regia Mario Martone
Scene Sergio Tramonti
Costumi Ursula Patzak
Luci Pasquale Mari
Produzione 2014, riallestimento
Pesaro, Vitrifrigo Arena, 9 agosto 2023