Il coup de théâtre arriva sugli ultimi accordi dell’orchestra e sottolinea una volta di più la centralità della zingara nella drammatica vicenda. Non diremo cosa accade esattamente in quel momento (anche per non spoilerare, come si dice oggi) ma certamente la scelta del regista Davide Livermore conferma la sua intelligenza nell’approccio a un titolo, Il trovatore, amatissimo dal pubblico e proprio per questo ancor più difficile da allestire. Siamo al Teatro Regio di Parma, nell’ambito del Festival Verdi, e le cronache della prima parlano di contestazioni all’indirizzo del regista che pare non si sia sottratto a replicare con vivacità al pubblico. Alla recita a cui abbiamo assistito, le cose sono andate più tranquillamente, con applausi abbastanza calorosi per tutti da parte di un uditorio internazionale.
L’impostazione generale di Livermore, in verità, rispecchia alcuni topoi della sua poetica, a cominciare dal clima cupo e distopico entro il quale avvolge la narrazione, alquanto simile al Macbeth scaligero (“uno spazio suburbano – dice il regista stesso nelle note di sala – dove si pratica la forza, non l’accoglienza”); ci sono poi le consuete immagini di D-Wok che costruiscono e decostruiscono gli spazi, e c’è l’ambientazione della vicenda in una grigia periferia di una grande città. L’elemento di originalità si ravvisa semmai nell’idea che Manrico, sua madre e gli zingari siano artisti di un circo, rom, “anime non ordinarie – è sempre Livermore che parla – da cui possono venire delle storie che hanno dell’incredibile, come questa”. In realtà, quella circense sembra essere una copertura per una organizzazione mafiosa in conflitto con quella più strutturata e da “colletti bianchi” capeggiata dal Conte di Luna. Regista di consumata esperienza, Livermore muove con sapienza singoli e masse, pone particolare attenzione all’impatto visivo, sempre molto studiato e sovente affascinante. Merito anche di un gruppo di bravissimi mimi abbigliati da Anna Verde come inquietanti artisti circensi, entro le scene disegnate da Giò Forma e con le luci cangianti di Antonio Castro.
Molto suggestivi i momenti in cui le immagini di D-Wok, proiettate sul fondo del palco e riflesse in alcuni specchi posti ai lati, riproducono una pioggia/neve al rallentatore: quasi una metafora della condizione esistenziale dei personaggi, governati da un unico sentimento, il dolore. Un po’ come la neve di Joyce nell’ultimo racconto di Gente di Dublino, questa pioggia sembra paralizzare i protagonisti nella loro condizione, incapaci di uscirne e di realizzare i propri sogni, di amarsi, di vivere la loro libertà. Tutti già morti, in definitiva, proprio come nello scrittore irlandese, e comunque vittime di un destino ineluttabile che si compirà secondo i propri desideri soltanto per la zingara. Il Conte, dal canto suo, lungi dall’essere il granitico malvagio che ci si aspetterebbe, si conferma il personaggio più struggente dell’opera, condannato a una infelicità ancor più profonda degli altri.
Una dimensione, quest’ultima, ben restituita da Franco Vassallo, Conte di voce chiara e di buon volume, interprete sufficientemente incisivo nel gioco di colori e nel fraseggio. Clementine Margaine conferisce notevole pregnanza emotiva alla zingara, allucinata e inquietante in molti passaggi, amorevole in altri: la voce non è torrenziale ma comunque di notevole volume, il fraseggio studiato, la musicalità ottima. Riccardo Massi, se scenicamente sconta una certa rigidità, è comunque un Manrico solido, di voce ampia e ben proiettata. La sua prestazione è in crescendo e, naturalmente, il do della “pira” c’è e nel finale dell’atto è anche tenuto a lungo. Tuttavia, pur non disdegnando il piacere di ascoltare un acuto, la credibilità del personaggio – quanto mai lunare e tormentato – si misura su altri indicatori. Ad esempio, sulla commozione con cui cesella “Ah sì, ben mio” e sull’attenzione alla parola che lo spinge a cercare un fraseggio ovunque vario. La pregevole presenza scenica di Francesca Dotto si accompagna a uno strumento vocale prezioso nel lucido smalto dei centri, che la cantante veneta sa piegare a bei pianissimi, soprattutto nella magnifica aria del quarto atto. Riccardo Fassi sostituisce l’annunciato Marco Spotti quale incisivo Ferrando. Molto bravi tutti gli altri: Carmen Lopez (Ines, allieva dell’Accademia verdiana), Didier Pieri (Ruiz), Enrico Picinni Leopardi (un messo), Sandro Pucci (un vecchio zingaro).
Dal podio, Francesco Ivan Ciampa propone una lettura al calor bianco del titolo verdiano, senza tuttavia correre il rischio di scadere nel clangore eccessivo, ma anzi conferendo alla narrazione un potente respiro teatrale. Il gusto per la bellezza del suono si fa apprezzare non solo nel rilievo conferito ai singoli strumenti, ma anche nell’accompagnamento al canto, delibato nel segno di un pregevole equilibrio tra giustezza ritmica e libertà agogica. Ottima la prestazione dell’orchestra del Teatro Comunale di Bologna e del coro, istruito da Gea Garatti Ansini, sempre compatto e intonato.
Festival Verdi 2023
IL TROVATORE
Dramma in quattro parti di Salvatore Cammarano
dal dramma El trovador di Antonio García-Gutiérrez
Musica di Giuseppe Verdi
Il Conte di Luna Franco Vassallo
Leonora Francesca Dotto
Azucena Clementine Margaine
Manrico Riccardo Massi
Ferrando Riccardo Fassi
Ines Carmela Lopez *
Ruiz Didier Pieri
Un messo Enrico Picinni Leopardi
Un vecchio zingaro Sandro Pucci
*Allieva dell’Accademia Verdiana
Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna
Direttore Francesco Ivan Ciampa
Maestro del coro Gea Garatti Ansini
Regia Davide Livermore
Regista collaboratore Carlo Sciaccaluga
Scene Giò Forma
Video D-Wok
Costumi Anna Verde
Luci Antonio Castro
Nuovo allestimento del Teatro Regio di Parma
In coproduzione con Teatro Comunale di Bologna
Parma, Teatro Regio, 5 ottobre 2023