A cominciare dalla riscoperta con Joan Sutherland sul finire degli anni Cinquanta, Alcina si conferma come una delle opere preferite di Händel. Come la maggior parte dei drammi per musica del Spätbarock, offre una sfida non da poco: una lunghezza sopra la media e una drammaturgia codificata poggiando sull’espressione delle emozioni sono distanti dalle abitudini del pubblico odierno. E la presenza di balletti, quando si tratta di una versione da concerto, complica le cose. Certo, vi sarebbe il ricorso ai tagli, procedimento oggi evitato (per legittime ragioni).
Marc Minkowski e la sua orchestra, i travolgenti Musiciens du Louvre, hanno fatto la scelta del dinamismo rinnovato senza tregua, anche nelle arie più “patetiche” della partitura. Sempre pronti a trovare un espediente, se necessario improvvisato. Mancano due leggii? Spuntano miracolosamente da dietro le quinte. Un tuono ruggisce in partitura? Il basso Alex Rosen si mette alla grancassa. I cantanti/attori entrano ed escono con energia, senza mai perdere un istante, come se fossimo a teatro con una drammaturgia calibratissima. L’azione avanza a dispetto delle peripezie del libretto. Restiamo con il fiato sospeso per circa quattro ore fino alla meravigliosa scena finale in cui, dopo una poetica cascata di note ai due clavicembali, gli ex-amanti di Alcina, trasformati in fiumi, fontane, bestie selvagge o in piante, ritrovano una forma umana. Come i personaggi, anche il pubblico ha l’impressione di ritrovare la normalità, dopo un lungo sogno garantito dall’impegno di un gruppo d’artisti d’eccezione. Musicalmente, il concerto si colloca sotto il segno dello splendore sonoro.
D’altra parte, il titolo della serata potrebbe essere «i tre mezzosoprani». Perché ce ne sono tre, tutti prodigiosi pur con mezzi e colori diversi. Il ruolo con il timbro più grave è quello di Bradamante, affidato a Elizabeth DeShong. Una voce cavernosa, ampia, che però non esclude una flessibilità impressionante nelle diminuzioni. «Vorrei vendicarmi del perfido cor» è stato l’esempio più fulgido. Con il Ruggiero di Anna Bonitatibus il tono cambia, ma non certo l’eccellenza che il mezzosoprano italiano incarna sin dal suo primo apparire su scena. La voce della Bonitatibus è puro velluto. Probabilmente, il colore e il calore del suo timbro restano le qualità più rilevanti. Impressionante il suo «Qual portento» con una messa di voce a cappella. Infine, Magdalena Kožená non lascia spazio ai dubbi perché sia lei a scivolare nei panni del ruolo eponimo: la bellezza del timbro è indiscutibile, insieme alla potenza (una voce, la sua, che invade lo sterminato auditorium della Philharmonie) e il suo virtuosismo, sempre sicuro. Tutte qualità necessarie, specie per nei lamenti «Sì, son quella», «Ah! mio cor» e «Mi restano le lagrime».
Accanto alle tre dive, gli altri cantanti si impongono, senza minimamente vacillare. Il tenore Valerio Contaldo è bravissimo: convince il suo Oronte in virtù della rotondità del timbro, del controllo della tecnica, di uno stile sempre appropriato e, anche, per la capacità attoriale a muoversi su scena. Alex Rosen è del tutto a suo agio nel ruolo di Melisso. Applauditissimi sono pure Erin Morley (Morgana) e Alois Mühlbacher (Oberto). Eppure l’una non pare in grande forma (gli acuti non sono sempre riusciti e il suo italiano… bah, è più vicino a un esperanto improbabile) e l’altro ha un timbro abbastanza sgradevole.
Les musiciens du Louvre, si diceva, sono opulenti. Il suono è omogeneo, pieno; la tecnica infallibile (specie degli archi). Senza dubbio, è uno degli ensembles migliori attualmente in Francia. Un merito che spetta a Marc Minkowski, mago (uno dei maghi) della serata. Dopo il concerto della Philharmonie, questa Alcina è partita in una tournée europea e presto finirà pure in disco (Pentatone).
Parigi, 7 febbraio 2023