Grande successo di pubblico per Peter Grimes al Palais Garnier (Opéra de Paris). Il teatro è pieno, tante persone cercano posto e non potranno entrare. Il passaparola aveva ragione: tale successo è meritato. Peter Grimes è una storia semplice: sulla base di una voce messa in giro da un’anziana donna in un villaggio sul mare – si parlerebbe oggi di fake news –, gli abitanti si lanciano nell’inseguimento del pescatore Peter Grimes, la pecora nera del villaggio. Questi perde la ragione e si suicida sabotando la sua barca in mare. Dietro la semplicità della storia si nasconde qualcosa di un’abissale profondità, che rende l’opera di Britten non solo una delle più belle del Novecento, ma sicuramente la più importante, anche più di Turandot o del Rosenkavalier. Peter Grimes è l’opera dell’odio. Un odio collettivo che, partendo da semplici mancanze umane individuali come la viltà, la cattiveria, la volgarità o il moralismo, diventa diabolico per l’effetto disinibitorio della folla.
Deborah Warner ha scelto di trasporre l’azione ai giorni nostri. È una via d’uscita facile e discutibile. In questo mondo di jeans, sneakers e cerate gialle da pesca, la povertà dei villaggi disagiati del Suffolk e la durezza del mestiere di pescatore sono alla base della brutalità degli abitanti, dei loro maltrattamenti a Peter, che a sua volta maltratta il suo apprendista. Assistiamo a una cascata di violenza che, a ogni livello, si abbatte su qualcuno più debole, come nel cinema di Michael Haneke. Ma con tale trasposizione perdiamo tanto quanto guadagniamo: se Peter Grimes è una delle maggiori opere sul tema dell’omofobia, il suo messaggio rimanda anche ad altre forme di persecuzione: quella dello sterminio degli ebrei (l’opera è stata creata nel 1945), quella del linciaggio mediatico e popolare che riappare quando i poteri democratici si disintegrano e la giustizia non riesce più a fare il proprio lavoro. Come mai una comunità umana, in un determinato momento, precipita nell’isteria collettiva e diventa omicida? Una lettura esclusivamente economica e sociale può fornire solo una risposta parziale e semplicistica. Il punto di forza della produzione di Warner è invece la direzione di attori. I personaggi del dramma sono vicini a noi nei loro abiti come nei loro movimenti. La verità del gesto raggiunge vette di virtuosismo nelle scene corali: rimaniamo impressionati dalla canzone popolare “Young Joe has gone fishing”, dai gesti scabrosi dello speziale, dalla coreografia spontanea che si trasforma in una rissa pubblica. La caccia all’uomo “Him who despises us we’ll destroy” e lo tsunami di odio che scatena, ci immergono nella violenza ebbra degli hooligans. Sono momenti di grande teatro, e il pubblico riceve un pugno nello stomaco.
Il lavoro musicale è esemplare. Il giovane direttore Alexander Soddy, per la prima volta a Parigi, esalta la potenza degli ottoni della partitura tanto quanto sa rendere l’orchestra morbida e sensuale, negli intermezzi marini “On the beach” e “Evening”. Il coro, recentemente posto sotto l’esperta direzione di Ching-Lien Wu, è semplicemente magistrale: potente, preciso e virtuoso e con una pronuncia notevole dell’inglese.
I solisti sono tutti di lingua inglese, con l’eccezione della svedese Maria Bengtsson (Ellen), una voce vellutata, che forse manca un po’ di potenza per l’orchestra di Britten, ma che regala un bellissimo “Embroidery”. La voce monumentale e l’impegno scenico di Allan Clayton ne fanno un grande Grimes, più nella tradizione di Jon Vickers che non in quella di Peter Pears. Accanto a lui un cast maschile di interpreti specializzati nel repertorio di Britten, con il grande Simon Keenlyside (Capitano Baltrode), Clive Bayley (Swallow) e una menzione speciale per Jacques Imbrailo (Ned Keene), al suo debutto a Parigi. Molto convincenti anche le interpretazioni di Catherine Wyn-Rogers (Auntie) e Rosie Aldridge (Mrs Sedley), entrambe accattivanti nella loro umanità maldestra. Di particolare interesse il contributo delle due “nipotine”, le ragazze facili del pub, Anna-Sophie Neher e Ilanah Lobel-Torres, attrici perfette e voci freschissime. Grazie a loro, il quartetto “From the gutter” raggiunge il sublime e offre una rara oasi di umanità e di tenerezza in questo universo da incubo.
Un caloroso applauso al calar del sipario, raddoppiato quando il piccolo apprendista viene a salutare il pubblico, precedendo Clayton. Un solo rammarico: sarebbe stata una bella iniziativa quella di dare al coro, vero protagonista di questo dramma, l’onore dell’ultimo saluto. Per una volta.
Parigi, 19 febbraio 2023
Foto copertina: Vincent Pontet