In tempi magri fa sempre comodo, anche per un grande teatro, ripescare un vecchio allestimento di un titolo di sicuro impatto con qualche nome importante affiancato da interpreti giovani, magari al loro debutto in loco. È il caso della Lucia di Lammermoor di Donizetti in scena all’Opéra Bastille di Parigi.
Lo spettacolo, nato nel 1995 con la regia di Andrei Serban e l’interpretazione di June Anderson, e poi rimaneggiato per la forte personalità di Natalie Dessay, è forse tra i più paleolitici di un teatro che si è sempre caratterizzato per buttare i soldi in nuovi spettacoli pour épater le bourgeois. Contestato all’epoca, oggi sembra quasi un classico, anche se resta brutto. La scena, manco a dirlo, è unica. L’idea principale è che Lucia (come pure Alisa e le figuranti) sia vittima di un mondo ipermascolino e “tossico” (oggi va benissimo), con tanti comprimari che si esercitano nelle armi o nel pugilato, e quando sono un po’ stanchi (ad esempio Normanno, più disgustoso del solito) cercano di violentare le donne: in questo caso è Alisa che deve stare sempre sul chi vive, ma lei è brava e il perfido non riesce mai a compiere il misfatto. Alla fine lei, stufa, va via con una valigia dopo la morte della protagonista. Non vi faccio perdere altro tempo.
La parte musicale sembra un po’ più curata. Ma incomincia male, con la scelta di un giovane maestro nel cui curriculum il belcanto non compare e infatti si sente subito: tempi dilatati, un po’ di chiasso, anche se l’orchestra suona al suo solito bene. Ed è quanto si può dire della bacchetta di Aziz Shokhakimov, che vanta esperienze in Germania con autori quali Mahler e Strauss, ma non si fa problemi a tagliare tutta la scena della torre e la ripresa della cabaletta di Enrico.
Si dice che Bellini e Donizetti vengono sempre salvati dai cantanti. Non è sempre vero, ma per fortuna questa volta va così. Javier Camarena ottiene un trionfo meritato come Edgardo, uno di quei ruoli che lo portano al limite delle sue possibilità vocali, tuttavia il cantante sa gestire il suo bellissimo strumento in modo impareggiabile, nella miglior tradizione dei tenori lirico-leggeri che si sono esibiti con fortuna in una parte così impervia. Ovviamente il meglio arriva nella grande scena che lo vede protagonista nell’atto finale, ma già nel primo e nel secondo dà prove – quasi scontate – della sua bravura. Come interprete non si impegna troppo, ma l’esito è più che positivo.
La grande sorpresa – per chi non lo conoscesse – è Mattia Olivieri al suo debutto parigino nei panni di Enrico. Se il pubblico lo ha acclamato, la critica è stata addirittura ditirambica. Il baritono modenese canta con sicurezza: la voce corre per l’enorme e acusticamente ingrata sala con bel timbro, acuti che non una volta risultano sparati o gridati (secondo una becera tradizione post verista), notevole estensione e omogeneità tra i registri. Si aggiungano la figura avvenente e una cura del fraseggio notevole. Da tanto tempo non sentivo un Ashton che si dimostrasse combattuto tra il bisogno (politico ed economico) e l’amore fraterno. “Appressati Lucia”, all’inizio del duetto del secondo atto, fa passare un soffio di rammarico e di tenerezza così come “Devi salvarmi!” è soprattutto una supplica disperata. Ancora più dispiace per il taglio della scena in cui potevano esibirsi insieme tenore e baritono (l’inizio del sestetto al secondo atto fa venire l’acquolina in bocca).
Lucia è Brenda Rae, che ha fatto sapere di cantare per salvare la recita anche se indisposta. L’avevo sentita nella parte qualche anno fa a Vienna, quando era arrivata per sostituire all’ultimo momento la Damrau, e a parte un canto prudente (soprattutto nell’atto primo) non ho sentito niente di molto diverso da allora. Voce piccola dalla tecnica ferrata, centro e gravi deboli, acuti e sovracuti bene emessi anche se metallici e un po’ fissi. L’interpretazione è più che corretta, ma si tratta di una brava artista dal carisma praticamente inesistente e il ruolo, si sa, ne ha bisogno. Applausi scroscianti pure per lei.
Adam Palka è un basso dai mezzi ragguardevoli ma dovrebbe rivedere l’emissione, che nell’atto primo impedisce di capire anche una sola parola. Parecchio sbiadito Arturo, lo sposino, interpretato dal tenore Thomas Bettinger. Molto bene il Normanno di Éric Huchet e interessante l’Alisa di Julie Pasturaud. Il coro istruito da Ching-Lien Wu canta bene ma in qualche momento, come all’inizio della scena della pazzia, si notano segni d’incertezza o di stanchezza (forse dovuti al notevole lavoro nel contemporaneo Peter Grimes al Palais Garnier).
Il pubblico, numeroso, nel corso dell’opera applaude con calore la scena della pazzia e “Fra poco a me ricovero”, mentre per il resto sembra non sapere bene se e quando applaudire (purtroppo non un caso unico tra i teatri europei).
Parigi, 23 febbraio 2023