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Parigi, Opéra Bastille – La bohème (direttore Michele Mariotti)

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Perché “subire” l’ennesima Bohème che poco promette, anche se siamo all’Opéra Bastille e c’è chi cerca affannosamente biglietti all’ingresso (per poi scoprire che dentro ci sono posti vuoti)? Ad attirarci non sono certo le scemenze propinate dall’ormai “celebre” allestimento per la regia di Claus Guth, ambientato all’interno di una navicella sperduta nello spazio, dove due astronauti (Rodolfo e Marcello) credono di rivedere il loro ridente passato mentre trascorrono le ultime ore di agonia. Non bastava il Rigoletto sul pianeta delle scimmie messo in scena a Monaco di Baviera? Che poi Colline faccia anche la parte di Benoît, che il coro e alcuni personaggi cantino dietro le quinte, o che il quadro di Momus sia di una povertà più che spartana e non si sa se più brutto o più triste, sono solo dei danni collaterali. Inutile dilungarsi. A molti è piaciuto, buon per loro.

E allora perché subire questa Bohème? Direi soprattutto, anzi quasi esclusivamente, per la direzione musicale. Michele Mariotti non solo fa suonare benissimo l’ottima orchestra del teatro, ma interpreta anche in modo mirabile la partitura pucciniana, che brilla senza il minimo cedimento, senza un’ombra di routine. Ed ecco che, senza languori e inutili patetismi, grazie a tempi e dinamiche ineccepibili, Puccini ci fa ridere, sorridere, piangere, riflettere, capire: perfino con gli Alcindoro e i Benoît. Bacchetta attenta e flessibile, quella di Mariotti, capace di seguire ma anche di aiutare e comprendere le esigenze del palcoscenico, almeno nei limiti del possibile. Devo dire che, dopo l’esperienza dal vivo con Carlos Kleiber a Monaco  nel (ahimè) lontano 1984, questa è la seconda volta che credo di recepire per davvero in una recita teatrale il senso profondo di questa popolare partitura. La differenza era che Kleiber aveva Freni, Pavarotti e Popp.

Qui niente nomi gloriosi, ma un cast che sarebbe nel complesso buono se non fosse per la presenza del più che modesto Rodolfo di Joshua Guerrero, tenore che ha dalla sua un certo squillo in acuto, e poco più. La migliore in campo, in un ruolo senz’altro adeguato ai suoi mezzi, è Ailyn Pérez, una Mimì dal timbro impersonale ma corretta e con delle sfumature davvero interessanti. La seguono Gianluca Buratto, il migliore tra gli “allegri” compagni, che con bella voce canta un’accorata versione dell’aria di Colline “Vecchia zimarra” (e delinea anche un gustoso Benoît); Simone Del Savio, bravo Schaunard, molto sicuro in tutti i sensi; e la Musetta forse troppo soubrette di Slávka Zámečníková, con l’inevitabile spogliarello durante il suo famoso valzer.
Il caso dell’eccellente Andrzej Filonzyk è diverso: ottimo attore, dotato di bella voce, il suo Marcello ha una tale voglia di dire e fare che finisce per strafare anche con l’emissione (come nel caso del suo Malatesta a Barcellona) ed è davvero un peccato. Bene Franck Leguérinel nei panni di Alcindoro. Le voci dei doganieri (che non si vedono) sono discrete. Corretto il Parpignol di Luca Sannai, così come il coro del Teatro istruito dalla solita Ching-Lien Wu e quello delle voci bianche della Maîtrise des Hauts-de-Seine. Invadente – non per colpa sua – l’attore che svolge funzioni da maestro di cerimonia.
Pochi applausi durante la recita, ma alla fine accoglienze molto calorose per tutti.

Parigi, 23 maggio 2023

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