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Parigi, Opéra Bastille – Il trovatore (con Pirozzi, Eyvazov, Tagliavini)

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È vero che i teatri parigini – quattro consacrati all’opera o meglio cinque, se si considera che l’Opéra national de Paris dispone di due spazi – e accessoriamente anche le sale da concerto riempiono quasi sempre, ma questa produzione de Il trovatore all’Opéra Bastille ha sbancato. Chi è riuscito a procurarsi un biglietto ha ottime ragioni per rallegrarsene. Un cast di altissimo livello, una direzione precisissima e raffinatissima, un’orchestra pienamente investita sono tra i primi ingredienti della riuscita incontestabile. E poi certo la musica di Verdi contribuisce a soddisfare tutti (o quasi) i palati.

Se per Toscanini, erano necessari quattro cantanti d’eccezione (o meglio: “i migliori al mondo”) per assicurare una buona esecuzione de Il trovatore, in questo caso, ce n’è anche un quinto. Roberto Tagliavini, nei panni di Ferrando, attacca subito, lasciando sperare il meglio: il basso emiliano avrà pure una parte secondaria, ma riesce a lasciare un’impronta indelebile nel pubblico grazie a una voce vellutata e a un agio scenico non da poco. Il “là” della produzione lo dà lui. Il ruolo eponimo spetta a Yusif Eyvazov. Che, se si impone sin dalla sua prima apparizione, suscita però, in un primo momento, qualche vaga perplessità per un suo certo timbro velato. Ma la voce del tenore si fa sempre più piena e limpida nel corso della serata, regalandoci momenti da brivido. Come restare impassibili davanti alla sua “Di quella pira” che affronta spavaldamente, buttandosi, accettando tutti i rischi vocali. Basterebbe la prestanza vocale e scenica nella famosa cabaletta per fare di Yusif Eyvazov un Manrico impareggiabile. La presenza del rivale (almeno in amore su scena) Étienne Dupuis potrebbe certo fargli un po’ d’ombra. Perché il baritono canadese ha proprio tutto per sedurre Leonora e soprattutto il pubblico. Non solo il timbro è inebriante, ma poi la tecnica è infallibile, la tavolozza dei colori vastissima, la recitazione sempre credibile. Sì, è un “cattivo”, ma quasi quasi si ha voglia di stare dalla sua parte e andargli dietro. E tra le donne? L’Azucena di Judit Kutasi, al suo debutto all’Opéra national de Paris, ha conquistato il pubblico in una parte notoriamente temibile anche e soprattutto per l’incatenamento di pezzi che le obbligano di stare a lungo su scena (che tour de force per lei il secondo atto!). La sua è una prima volta parigina che non rischia di essere l’ultima. E poi certo c’è Leonora che segna il ritorno di Anna Pirozzi. Il soprano a dicembre, sempre all’Opéra di Parigi, aveva debuttato, sostituendo all’ultimo minuto Anna Netrebko ne La forza del destino. Da una Leonora all’altra, per il soprano napoletano si è trattato in ogni caso di un trionfo. “Tacea la notte placida” convince senza esitazioni; “D’amor sull’ali rosee” conferma il suo talento; e con il “Miserere” si impone come una cantante dai mezzi vocali spettacolari. Una vera verdiana per potenza, per colore, per intelligenza. Non è un caso che il suo repertorio sia per lo più consacrato proprio a Verdi con qualche escursione nelle opere veriste. Pure il coro, ancora una volta preparato dall’ottimo Alessandro Di Stefano, ci regala un’esecuzione impeccabile e fine.

In fossa poi, c’è Carlo Rizzi. Chi si aspettava un’esecuzione, almeno strumentale, da routine, non ha fatto i conti con il direttore milanese. Con lui, l’orchestra ha dato il meglio: precisione, raffinatezza, perfezione stilistica e, manco a dirlo, senso del fraseggio in osmosi constante con i cantanti.

E la regia di Àlex Ollé, una delle grandi firme de La Fura dels Baus? La scelta di trasportare la vicenda in piena Seconda guerra mondiale tra maschere a gas, campi di battaglia, prigionieri catturati o torturati e morti seppelliti in un cimitero di fortuna indubbiamente estremizza la polarità dei due gruppi, il clan del conte Luna e i gitani. Ma non tutto funziona. Anche perché un difetto maggiore fa vacillare tutta la costruzione: i cantanti non hanno nessuna direzione e gesticolano come possono (e vogliono). Certi gesti stereotipati, come le mani al cuore o la posa in ginocchio con le braccia levate verso il cielo, non pensavamo di rivederli mai più in un palcoscenico parigino. Che senso ha mettere una divisa ai coristi senza preoccuparsi della recitazione dei solisti?

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