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Parigi, Opéra Bastille – Hamlet (con Ludovic Tézier e Lisette Oropesa)

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“Un’ultima parola sull’Opéra, si è di pregarvi a mandarmi il più presto che potrete il libretto dell’Amleto, e darmi le notizie del successo subito dopo la prima sera”. Pur fingendo a parole una totale indifferenza, Verdi seguiva e scrutava sempre con puntigliosa attenzione quello che succedeva a Parigi. Ovviamente, la “prima” dell’Hamlet che si svolse all’Opéra il 9 marzo 1868 non lo lasciava certo indifferente. Sia perché con Shakespeare il compositore italiano aveva una lunga storia (e solo tre anni prima aveva rimaneggiato il Macbeth per il Théâtre Lyrique, accolto freddamente), sia perché i rapporti con il primo teatro parigino non erano mai stati facili e il recentissimo Don Carlos (rappresentato per la prima volta solo pochi mesi prima della fatica di Ambroise Thomas) li aveva resi ancora più tesi. Dal suo editore francese, Léon Escudier, Verdi si fece mandare il libretto e da Ricordi la partitura. Il verdetto fu implacabile: “Ho letto il libretto d’Hamlet. È impossibile far peggio. Povero Shakespeare! come me l’han conciato! Non vi è che la scena tra Hamlet e la Regina; quello è ben reso è teatrale e musicabile. Il resto… amen”.

In effetti, l’opera tragica di Thomas non riuscì mai a imporsi come l’opéra-comique Mignon cui il nome del compositore francese è di solito associato. Eppure, Hamlet, a poco a poco, sta riuscendo a tornare a galla. L’Opéra-Comique l’ha proposta nel 2018 (e ripresa lo scorso anno) e ora tocca all’Opéra che dai tempi della “prima” ottocentesca non l’aveva più rappresentata.
Perché Verdi fu tanto critico con questo Hamlet? Le ragioni appaiono rapidamente evidenti. I librettisti Michel Carré e Jules Barbier si allontanarono allegramente dalla fonte di cui diedero una versione che perse la tragicità tetra, abissale dell’origine facendone una vicenda intessuta di contrasti e ripicche sostanzialmente banali. Thomas segue quest’impostazione cui la regia di Krzysztof Warlikowski dà l’affondo finale: Hamlet parrebbe, né più né meno, un classico adolescente cui non va proprio giù il nuovo compagno della madre e per questo fa bizze e capricci. Per altro, il regista polacco, che all’Opéra è un vero habitué, ha deciso di ambientare gran parte della vicenda in una casa di riposo: il primo atto diventa una specie di prologo “venti anni dopo” (Hamlet è ormai vecchio e Gertrudre in sedia a rotelle) cui segue un lungo flash back. L’idea non è nuova e, soprattutto, rende il tutto inutilmente incomprensibile. Eppure, la lettura del dramma di Shakespeare da parte di Warlikowski al festival di Avignon nel 2001 resterà memorabile. Gli anni passano e forse la routine ha preso il sopravvento.

Ma l’Opéra de Paris non ha puntato solo su un regista di grido. Ha pure riunito artisti eccelsi che hanno fatto brillare questa produzione. Innanzi tutto, l’eroe eponimo: la parte concepita da Thomas per Jean-Baptiste Faure (creatore pure di Rodrigue nel Don Carlos) è una sfida (non solo musicalmente, ma anche attoriale) per ogni baritono. Stéphane Degout pareva insuperabile. E invece Ludovic Tézier riprende, dopo più di venti anni, il ruolo e gli dà un’impronta personalissima da grande maestro. Se è possibile parlare di perfezione, questo sarebbe il momento di farlo. Tutto gli va a pennello: la virtuosità, la declamazione di lunghi passaggi, il tono tanto beffardo quanto funesto. Quasi sempre in scena, Tézier restituisce alla vicenda il tono aulico tolto dal regista.
L’Ophélie di Lisette Oropesa è pure magistrale, dalla tecnica e dal timbro invalicabili, ma forse più impressionante nei passaggi elegiaci che non nei momenti di cupa follia. Eve-Maud Hubeaux (Gertrude) si conferma uno dei grandi mezzosoprani in circolazione. Pure di altissimo livello il basso Jean Teitgen (Claudius), capace di un’ampia tavolozza di colori. Clive Bayley, Julien Behr, Alejandro Balina Vieites, Maciej Kwasnikowski sono tutti comprimari di grande lusso. Il coro poi preparato da Alessandro Di Stefano ci ha offerto, ancora una volta, una prestazione di altissima qualità alle prese con una scrittura complessa, tipica della tradizione lirica francese.

Thomas Hengelbrock avrebbe dovuto dirigere questa produzione, lasciando invece la bacchetta al giovane Pierre Dumoussaud che è impavidamente sceso nella fossa: la sua è una lettura energica, sempre tesa e particolarmente accurata. Reggere “le masse” dell’Opéra, come direbbe Verdi, non è un gioco da ragazzi.
Una nota di colore per terminare: il pubblico di Bastille (sicuramente più di quello di Garnier) è non solo sempre numerosissimo, ma anche composito: jeans e t-shirts si mescolano ai vestiti usciti dalle migliori sartorie parigine. In questo caso, i giovani erano vistosamente tanti, tanto da non passare per nulla inosservati. Merito della direzione dell’Opéra che riesce là dove i teatri italiani annaspano? Che Shakespeare e forse Warlikowski attirino gli spettatori curiosi? In ogni caso, si tratta di una buona notizia: rinnovare il pubblico si può. Basta volerlo.

Parigi, Opéra Bastille, 21 marzo 2023

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