Era d’autunno, correva l’anno 2008. Al Teatro Donizetti di Bergamo muoveva i suoi primi passi belliniani in Italia Jessica Pratt, in occasione della prima esecuzione della nuova edizione critica dei Puritani, firmata da Fabrizio Della Seta. Nel Finale primo, piegata al proscenio, dilaniata dall’abbandono, la sua Elvira aveva già allora il crisma dell’eccellenza. Da allora l’artista inglese si è ritagliata un posto di primo piano nel firmamento internazionale: è rossiniana di rango, donizettiana per elezione, belliniana per vocazione. Sicché c’era grande attesa per il recital posto a suggello dell’articolato cartellone estivo del Teatro Massimo di Palermo, un concerto interamente dedicato al musicista catanese, una sorta di prova generale in vista dell’attesissimo debutto in Beatrice di Tenda, il prossimo 23 settembre, al Teatro di San Carlo di Napoli, nella nuova lezione critica curata da Franco Piperno.
Si è trattato, per di più, di una serata posta sotto il segno di un duplice, triste omaggio, che ha trovato parole commosse nella voce del sovrintendente, Marco Betta, personalmente intervenuto per commemorare due recenti perdite. Da una parte quella di Renata Scotto, che di Pratt è stata anche insegnante (con lei ha studiato anche La Straniera, che speriamo figuri nella lista dei prossimi debutti). Il grande soprano savonese ha intrattenuto un rapporto privilegiato con il Massimo, come efficacemente rievoca Angela Fodale nelle preziose note di sala: presente sulle scene palermitane dal 1965 al 1973, è stata per ben due volte Amina nella Sonnambula del 1965 e del 1972, oltre che Alaìde, in un’edizione della Straniera presto diventata di riferimento (anche nel mercato discografico pirata), portata in tournée alla Fenice di Venezia e all’Opera di Roma nel 1970, quindi al Festival di Edimburgo due anni più tardi. Ma dall’altra è stato accorato il ricordo di Giovanbattista Cutolo, giovane cornista dell’Orchestra Scarlatti Camera Young, allievo del Conservatorio di San Pietro a Majella, una «vita spezzata» in un mondo in cui «bisognerebbe fare più musica», per ritrovare quei valori negati dalla violenza di un gesto criminale. Da sempre sensibile alle tematiche sociali e attivo nei quartieri ‘a rischio’ del capoluogo siciliano, il Teatro è da sempre in prima fila nella lotta contro le mafie, un impegno confermato anche in questa triste occasione.
Ma poi è stata musica, per fortuna. Che richiede tuttavia due riflessioni preliminari. La prima è di segno negativo. Il concerto, infatti, è stato accompagnato unicamente dall’orchestra del Teatro, e forse anche per questo l’intero programma – cinque numeri da altrettanti titoli belliniani – è stato falcidiato da tagli difficilmente tollerabili. La cabaletta finale della Straniera è stata amputata del da capo, la ripresa della cabaletta della cavatina di Norma accorciata. Via tutti i tempi di mezzo, con effetto francamente traumatico nelle pagine tratte dai Puritani e dalla Sonnambula, via tutti gli interventi in cui è previsto il coro, che pure sarebbe stato possibile impiegare in un teatro che ne è provvisto in organico. Il risultato non è solo filologicamente increscioso, quanto soprattutto drammaturgicamente sghembo: l’ampiezza delle scene belliniane viene mozzata, si ha l’impressione che manchi sempre qualcosa, che le transizioni siano repentine, brusche, violente. La sensazione che si prova è quella di un respiro interrotto, di un’architettura terremotata, oggi francamente difficile da ascoltare anche in sede di concerto.
Il programma, per contro, è impaginato con grande cura: sia benedetto chi ci ha evitato l’inevitabile Sinfonia di Norma, autentica ‘sigla’ di tutti i concerti belliniani che si svolgono nell’isola – e che per qualche anno faremmo volentieri a meno di ascoltare. E invece il focus è stato opportunamente centrato sugli anni dell’apprendistato partenopeo (1822-25), e in particolare su due delle otto sinfonie, che certificano la feconda apertura d’orizzonti del Catanese: quella in re maggiore, di stampo haydniano, con un pregevole Allegro, e l’ancor più interessante Capriccio ossia Sinfonia per studio in do minore, «un’esercitazione nello stile fugato, però animata da una robusta vena drammatica» (Fabrizio Della Seta), di stampo preromantico, che trova impatto e slancio nella bacchetta solidissima ed energica di Manuela Ranno. È una sorta di Scappucci siciliana – imprigiona una foltissima chioma con un pregiato fermaglio – e, come la direttrice romana, rifugge da un Bellini esangue o limitato a un melodismo d’ordinanza: lo scolpisce teatralissimo, nitido, perfino muscolare, scegliendo tempi sempre incalzanti – particolarmente centrati per la Sinfonia da Adelson e Salvini, che palesa i debiti rossiniani pur rivelando una felicità compositiva che è e sarà indelebilmente belliniana. C’è la salda capacità di accompagnare ma anche, forse soprattutto, quella di raccontare: di cedere il passo ai silenzi, a quei repentini rapimenti che impreziosiscono la scrittura per il teatro musicale.
Più articolato è il percorso di Jessica Pratt che, ex abrupto, si presenta con la sortita di Beatrice di Tenda. Comincia, giustamente, dal recitativo: e nell’ampiezza del suo «Respiro io qui…» si assommano le prigioni di fin troppe regine recluse, care alla penna di Romani come alle scene di Sanquirico. Suggella la riflessione con un gesto – vocale! – di rivolta: rapinoso è il «Che non mi dée l’ingrato?» che prelude a un cantabile rassegnato. È un pugno alzato verso il cielo, cui invece la conducono le flautate arcate in acuto con cui traduce pena e rimpianto per una scelta di vita irreversibile. Rimangono da mettere a fuoco i trilli della cabaletta, in cerca di un ultimo «raggio di pietà» prima di un martirio, cui sente di aver condannato l’intera corte. È ancora in progress – ma non per questo meno interessante – la definizione del finale della Straniera: che richiede una caratura drammatica e una potenza di emissione nel registro grave che, al momento, ancora non emergono. C’è piuttosto la rotondità di uno strumento che certo mostra tutta la sua floridezza nella preghiera, «Ciel pietoso»; il resto richiede una sprezzatura che al momento non le appartiene, anche perché – come si accennava in apertura – manca la progressione di eventi del tempo di mezzo.
Con I Puritani ritorna alla ribalta la stagione degli esordi. Pratt appartiene alla categoria di artiste che nell’ultimo trentennio ha avuto in Mariella Devia il suo punto di riferimento, e che risolve la pazzia di Elvira nel puro incanto della dimensione vocale. Ma non si pensi unicamente alle preziosità di «Vien, diletto, è in ciel la luna», in cui emerge tutto il gusto e la musicalità dell’artista; quanto soprattutto alla cura del declamato di «O rendetemi la speme», che si tinge di segreta inquietudine nei dialoghi che la protagonista intreccia con se stessa, nelle continue digressioni a una dimensione recitativa che dà consistenza e spessore al personaggio.
Poi c’è Norma, e anche qui è facile immaginare si tratti di un laboratorio in corso d’opera. «Casta diva», al momento, esalta l’eleganza superiore di un legato purissimo, immacolato, della capacità di conferire al canto la straordinaria capacità di creare un’atmosfera. Ed è forse qui che rivela la parte più interessante dello studio, dal momento che la cabaletta non s’impone per variazioni particolarmente suggestivee.
Dell’anima di Amina, invece, Pratt è voce autorevolissima, fervida, calorosa, intensa. La scena finale è emozione allo stato puro, accresciuta dal fatto che, con gli anni, il soprano ha forse maturato un accostamento tra le eroine belliniane: il «Gran dio» che prelude al «perdono» è regale, maestoso; sincero, accorato come «l’ultima preghiera» che intona su quel fiore «inaridito», tenero pegno di un amore capriccioso. Lì finisce tutto, crolla il mondo. E «Ah! non credea mirarti» ha un soffio catartico, un legato impareggiabile, il malinconico rimpianto che neanche il pianto potrà «ravvivar l’amore», come la viola appassita. C’è, poi, una singolare sintonia tra il suo timbro – che è e rimane, d’impianto, quello di un soprano leggero – e la scrittura di Amina: il tripudio di variazioni per la cabaletta è sfavillante immagine di una gioia incontenibile. Per questo, sembra perfettamente collegato il bis concesso dopo gli applausi: la Polacca di Elvira dal primo atto dei Puritani, «Son vergin vezzosa», che è autentica trina, nuvola vaporosa sospesa nell’aria per catturare gli affanni e trasformarli in gioia purissima, lieve, passeggera.
Teatro Massimo – Estate 2023
RECITAL DI CANTO
Musiche di Vincenzo Bellini
Jessica Pratt soprano
Orchestra del Teatro Massimo
Direttore Manuela Ranno
Palermo, 7 settembre 2023