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Palermo, Teatro Massimo – Evgenij Onegin

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L’anziana Larina come un’affascinante Norma Desmond, Evgenij Onegin come una sorta di Sunset Boulevard della società sovietica del Novecento? Dove tutto è finzione e nulla corrisponde alla realtà? Chissà. La proposta lascia per lo meno perplessi, a giudicare da quanto si è visto sul palcoscenico del Teatro Massimo di Palermo, dove il capolavoro di Pëtr Il’ič Čajkovskij è ritornato con grande successo dopo quasi un quarto di secolo. L’ultima ripresa risaliva infatti all’ormai lontano 1999: nel sontuoso, cinematografico allestimento felsineo firmato da Vittorio Borrelli, figuravano l’indimenticabile Tat’jana di Mirella Freni accanto al Principe Gremin di Nicolaj Ghiaurov. Altri tempi, certo, in cui una tradizione oleografica era a farla da padrona, ma anche un’illustrazione capace di assicurare l’immediata intelligenza del plot.

Dal Teatro di Magdeburg, che ha coprodotto lo spettacolo insieme con l’Opéra de Lorraine, arriva questa volta lo spettacolo firmato da Julien Chavaz con la collaborazione di Annemiek van Elst. Il regista bernese, direttore generale del teatro tedesco, colloca l’azione in una scena unica, manifestamente improntata a esplicitare l’illusione scenica: il piancito è ricoperto da un verdissimo prato finto, mentre sullo sfondo si stagliano rugose montagnole di cartapesta. A chiudere la scena, che si deve ad Amber Vandenhoeck, una cortina semicircolare di tulle bianco, aperta o chiusa alla bisogna, senza particolare riferimento all’azione. Di rara bruttezza, i costumi di Sanne Oostervink si rifanno a un generico, compassato Dopoguerra, con colori dalle tinte smorte su cui emergono, con dirompente contrasto, il rosso amarena avariata dell’ultimo abito di Tat’jana e lo sgargiante verde ottanio di Onegin. Ma è forse proprio il lavoro di regia a lasciare maggiormente perplessi. Si possono forse considerare le scene drammatiche cavate da Puškin come un affresco del declino della Russia, ma qui è il senso di uniforme grigiore a prevalere. Nell’insieme, alcuni personaggi risultano efficacemente sbalzati: Larina in tailleur bianco e bastone da vecchia diva, una Filipp’evna di debordante affetto materno; ma nelle scene corali emerge poi una presa di distanza ironica che si traduce in mossettine e ancheggiamenti di stampo ponnelliano, quando Čajkovskij omaggia le tradizioni popolari russe. Le luci di Eloi Gianini monitorano l’azione, che in molti frangenti – come la scena della lettera – sono immerse in un buio uniforme. Risulta poi incomprensibile il continuo andirivieni di un giardiniere, ora intento ad annaffiare le piante, in altri frangenti – come il tragico Finale II – occupato a transitare sulla scena tirando una carriola: è forse un riferimento al monito voltairriano del Candide, «il faut cultiver son jardin», per ricordarci che Onegin non riesce a coltivare il suo? La domanda è destinata a rimanere senza risposta.

Lontano da questo Regie-Theater d’ordinanza sono tuttavia i motivi di interesse di questo Onegin palermitano: coincidono piuttosto con la parte squisitamente musicale, affidata al direttore musicale del Teatro, Omer Meir Wellber. Del quale mai si è decantata a sufficienza la consentaneità con la stagione della Romantik tedesca e delle sue estreme propaggini, come in questo caso. L’Orchestra ne segue le preziose indicazioni nella ricerca di una tinta, di un colore morbidamente avvolgente, che costituisce la filigrana dell’intero spettacolo. Ma è poi nel sordo pulsare che si rivelano le inquietudini dell’orchestrazione čajkovskijana: a cominciare dal re grave del bordone di contrabbassi su cui si apre il Preludio, esaltato nella sua cupa visione premonitrice. Wellber ha gesto sicuro nei momenti più estroversi dell’opera: travolge sin dalla danza dei contadini del primo atto, in un crescendo che culmina nel colorito pompier della sfarzosa polonaise dell’ultimo, quasi a voler siglare la transizione dalla dimensione rurale a quella urbana, rutilante di tinte accese. E tanto più tende l’arco narrativo, durante le scene di massa, tanto più questo gli serve per sospendere, cristallizzare l’azione nei momenti di ripiegamento lirico: splendido è il pizzicato degli archi con cui blocca l’immagine dei sentimenti del quartetto di presentazione, «Skazhi, kotoraya Tatyana», durante il quale Tat’jana dà un’identità ai suoi sogni letterari e Lenskij evoca la poesia del suo amore per Ol’ga. È un rigore appassionato, quello con cui il musicista israeliano tratteggia la musica di Čajkovskij, di cui coglie l’infinita gamma di sfumature: con l’elegante apporto di James Kryshak, il cammeo francese di Monsieur Triquet raggiunge vertici di raffinatissima grazia, che sfuma in elegia nell’attacco in pianissimo della seconda strofa. Evgenij Onegin diventa così un caleidoscopio di affetti, preziosa sintesi della ricchezza – e non della decadenza! – di un’epoca, della tavolozza espressiva esperita da Čajkovskij.

Una dovizia condivisa dal palcoscenico, dove si muove un cast assemblato con cura; ben figura anche la compagine corale, per nulla intimorita dalle difficoltà linguistiche, e cui la direzione di Salvatore Punturo imprime scioltezza, dinamismo e vivacità. Con la bella prova di Kryshak, che è anche svettante Contadino al primo atto, anche le altre parti di fianco trovano compiutezza di caratterizzazione, nell’imponente Zareckij di Andrii Ganchuk, ma soprattutto nella divertita Larina di Helene Schneiderman, sempre apprezzata per la classe con cui affronta i ruoli comprimariali, e nell’umanissima, umbratile Filipp’evna di Margarita Nekrasova. Come spesso accade, si ritaglia un successo personale nella sua aria Giorgi Manoshvili, Gremin dalla cavata morbida, vellutata, suadente.

Il quartetto dei protagonisti naviga a gonfie vele. Victoria Karkacheva è Ol’ga, giovanile, irruente, supportata da bella grana vocale, pastosa, voce da autentico mezzosoprano, capace di contrastare efficacemente con quella della sorella maggiore: l’arioso del primo atto la vede fattiva, realista, entusiasta, tanto quanto nel gran concertato del secondo atto sarà vittima consapevole del suo ruolo di donna matura, travolta dagli eventi. Saimir Pirgu trova in Lenskij uno dei suoi ruoli di elezione. Il tenore albanese coniuga infatti la gradevolezza del timbro con il gusto delle sfumature e la sorgiva eleganza del fraseggio: il legato è l’asse portante di un’esecuzione che raggiunge il suo vertice già nello sgomento con cui attacca il finale del II atto – «V vashem dome!» – venato dalla malinconia con cui evoca il «sogno dorato» di un amore puro e incontaminato; fino alla sua grande aria, attaccata in pianissimo e affrontata con nobiltà trattenuta, senso della dignità, rimpianto del tempo perduto: un’oncia di abbandono in più ne avrebbe fatto un’esecuzione memorabile.

Nel ruolo del titolo brilla la presenza di Artur Ruciński. Ne ha la compostezza, il riserbo, un distacco che però lascia intravedere il fuoco giovanile che cova sotto la cenere: degno di nota è il corteggiamento di Ol’ga, nel corso del secondo atto, che si scioglie infine nelle ampie arcate di un concertato in cui emerge tutto il mal de vivre, l’insofferenza e l’insoddisfazione del personaggio. Ne scaturisce una visione sfaccettata del ruolo, valorizzato da un timbro chiaro, omogeneo su tutta la gamma, sonoramente proiettato: che trova sfogo nel travolgente duetto finale, autentico scacco di una vita trascorsa all’insegna dell’illusione e del disinganno.

Si intitola Onegin ma, come si sa, è facile che Tat’jana ne diventi la protagonista. Così è stato anche nel corso delle recite palermitane, dove ha riscosso un successo personale Carmen Giannattasio. L’artista campana si trova perfettamente a suo agio in questo repertorio, in cui ha modo di far emergere la dovizia di un timbro rigoglioso, che si espande caloroso sin dalla celeberrima scena della lettera e che si increspa per suggerire le inquietudini, mobilissime, di un vibrante percorso emotivo. Tratteggia un’eroina combattiva, che tenta di non farsi travolgere dal destino avverso – e che proprio per questo rimane incredula di fronte al rifiuto di Onegin: bellissima è la chiusa del primo atto, in una sorta di ripiegamento improvviso che si spegne in un dolore raccolto. Nel finale ultimo, grazie all’energia di una vocalità vigorosa, oppone un’autentica, impenetrabile barriera sonora all’amore giovanile: nella deflagrazione del finale tragico, che sigla un distacco ineluttabile, definitivo, straziante.

Teatro Massimo – Opera e Balletti 2022/23
EVGENIJ ONEGIN
Scene liriche in tre atti e sette quadri
di Pëtr Il’ič Čajkovskij e Konstantin Stepanovič Šilovskij
Musica di Pëtr Il’ič Čajkovskij

Larina Helene Schneiderman
Tat’jana Carmen Giannattasio
Ol’ga Victoria Karkacheva
Filipp’evna Margarita Nekrasova
Evgenij Onegin Artur Ruciński
Lenskij Saimir Pirgu
Il principe Gremin Giorgi Manoshvili
Triquet James Kryshak
Capitano delle guardie Andrii Ganchuk
Zareckij Andrii Ganchuk
Un contadino James Kryshak

Orchestra e Coro del Teatro Massimo
Direttore Omer Meir Wellber
Maestro del coro Salvatore Punturo
Regia Julien Chavaz
Regista collaboratrice Annemiek van Elst
Scene Amber Vandenhoeck
Costumi Sanne Oostervink
Luci Eloi Gianini

Produzione Theater Magdeburg, Opéra de Lorraine
Palermo, 23 maggio 2023

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