Benché seduta nelle prime file, una signora si alza per controllare: è lui. Alcune file più indietro, un’altra signora ha appena il tempo di scivolare nella poltrona e stringere amorevolmente la mano del consorte, quando è costretta a drizzarsi improvvisamente, irretita dai poderosi accordi di re minore dell’Ouverture. Al Teatro Massimo di Palermo è andato in scena il Don Giovanni ‘di’ Muti, ultimo, attesissimo titolo di un cartellone che si è concluso con una «gran festa»: con il capolavoro mozartiano affidato alla bacchetta di Riccardo Muti per il suo ritorno sulle scene liriche siciliane. Il Teatro è stato gremito in ogni ordine di posti per tutte le repliche, salutate dal prevedibile ‘tutto esaurito’: dalla prima, rinviata a causa dello sciopero per il rinnovo del contratto nazionale di lavoro, sino all’ultima, suggellata da un trionfo di portata storica, commovente per l’affetto e il calore con cui il pubblico si è stretto intorno al grande direttore partenopeo, autentica icona dell’arte musicale italiana.
E in effetti si sente aleggiare il soffio della storia nell’interpretazione, ormai paradigmatica, siglata da Muti, di cui rimangono numerose tracce, tutte di grande interesse. È utile sottolineare quanto il tempo trascorso sia stato saggio consigliere, in un arco temporale che travalica ormai un trentennio: si pensi al patinato altorilievo che con Strehler firmava per il 7 dicembre del 1987, per arrivare tre anni più tardi alla prima incisione ufficiale in studio, al Musikverein di Vienna, quando consegna Don Giovanni a un protoromanticismo corrusco, lampeggiante di guizzi e foschi bagliori notturni, schubertiana cavalcata verso una morte annunciata; fino al ripensamento madrileno, alle soglie del nuovo secolo, complice il ripensamento in chiave modernista voluto da Lluís Pasqual, che trasporta l’opera nella Spagna di Franco e pone al centro la figura carismatica di Carlos Álvarez.
Molta acqua è passata sotto i ponti dell’interpretazione mozartiana anche per Muti: che nel riprendere l’opera a Torino, nell’autunno scorso, poneva le basi di una rilettura della partitura su cui Alessandro Mormile si è magistralmente dilungato su queste colonne (qui il link alla recensione). Oggi Muti firma infatti un Don Giovanni in pieno equilibrio tra il vitalismo esasperato e lacerante che gli aveva attribuito, e un Settecento fatto di una sensiblerie più misurata: è il ponte ideale tra lo spirito rivoluzionario delle Nozze e la riflessione matura di Così fan tutte, in cerca di un prezioso gioco di simmetrie, densità, volumi. Complice un’Orchestra in stato di grazia e un Coro – preparato da Salvatore Punturo – garbatamente festoso, nella scena delle nozze, quanto opportunamente spazializzato per gli interventi finali, Don Giovanni diventa opera fuori dal tempo e dallo spazio: si staglia in una perfezione che da un lato lo rende modello del teatro del grand siècle, per la naturalezza e la sorgiva teatralità con cui vengono staccati i recitativi; e dall’altra ne supera i confini grazie agli affondi che Muti si ritaglia nel corso della partitura. Rimangono impressi nella mente l’Andante alla breve «Ah! soccorso!», al termine dell’Introduzione, con la straordinaria intuizione della sovrapposizione delle tre voci gravi, in un processo di identificazione tra vittima e carnefice che passa attraverso la scelta di timbri analoghi; o ancora la ripresa di «Dalla sua pace», autentico miracolo di un canto che non è solo a mezza voce, ma verrebbe da dire sotto pelle, nella mobilità epidermica con cui viene finemente cesellato; per approdare a un terzetto delle maschere in cui – da sempre – gioca la carta di una trasfigurazione metafisica del dramma. Lascia l’impressione che la materia sia stata continuamente ripensata, alla ricerca di colori più morbidi, di luci meno caravaggesche, di una medietà che non rinuncia agli impeti dionisiaci ma guarda con dolente abbandono all’incontaminata perfezione apollinea. Nel rimpianto di questo eden perduto sta tutta la pregnanza delle (mancate) conquiste del seduttore come il fascino di incontri che lasciano un segno duraturo, indelebile, incancellabile.
Non ci si stupirà, allora, se la compagnia di canto chiamata a supportare questa visione dell’opera è priva di presenze istrioniche, di trascinanti mattatori sopra le righe: c’è, piuttosto, una ricerca di verità scenica che travalica le necessità del canto, assicurate senza picchi, senza ardite impennate, ma con spontaneità e disinvoltura. Una scioltezza che connota l’impeccabile Don Giovanni di Luca Micheletti, il cui pregio maggiore è forse l’inserirsi in questa visione d’insieme con una franchezza e una freschezza che rendono giustizia a un personaggio ancora giovane e seducente, capace di doppiare le difficoltà del ruolo con una leggerezza da autentico gentiluomo: mirabile in una Serenata che racchiude tutto il fascino e l’eleganza di un’epoca al tramonto. Ardita – ma illuminante – è la scelta di Alessandro Luongo, Leporello dal timbro chiaro, presenza mercuriale, perfetto doppio del padrone: benché la confusione di identità sia prefigurata sin dall’Introduzione, come si accennava, è nel secondo atto che il gioco si fa autenticamente intrigante e culmina in un Sestetto in cui tutti i personaggi sembrano per la prima volta affacciarsi sul ciglio del baratro: i cromatismi del «Perdon, perdono» del servitore schiudono una voragine improvvisa, quella della presenza-assenza di Don Giovanni, che l’Allegro repentino di «Mille torbidi pensieri» travolge in una folata rigenerante. Sulla stessa lunghezza d’onda sono peraltro anche le due voci gravi, il Masetto vivace e rigoglioso di Leon Košavić come il Commendatore – raramente così umano – di Vittorio De Campo.
Piacciono molto le signore. Il panorama femminile è dominato dalla Donna Elvira di Mariangela Sicilia, che peraltro nel corso degli ultimi anni ha alternato entrambi i personaggi femminili dell’opera. Tratteggia un personaggio volitivo, autorevole, combattivo: si comprende bene come, nel frattempo, la sua vocalità stia evolvendo verso un altro repertorio, ma da artista intelligente qual è mette in luce proprio questo tratto, l’estraneità di Elvira al contesto che la circonda. E questo non le impedisce di trascinare con un «Mi tradì quell’alma ingrata» di lacerante impatto espressivo, sul ciglio di un «baratro mortal» che si schiude sul suo cammino epperò al tempo stesso animata da un senso di pietà inspiegabile – e che per certi versi appare imperdonabile finanche ai suoi occhi. Maria Grazia Schiavo è Donna Anna, cui conferisce insolita naïveté. Traduce con la fluidità della coloratura, screziata negli acuti, un’arrendevolezza, quasi un’ingenuità che si stenta a comprendere, una ricerca di olimpica serenità che in «Non mi dir, bell’idol mio» trova forse il suo vertice. È l’unico personaggio veramente, compiutamente innamorato, cui fa da ideale pendant il Don Ottavio sospiroso di Giovanni Sala: duttile alle richieste della bacchetta, s’impone per un gusto del legato esemplare, per una ricerca di tinte e colori rimarchevole. E convince pure Francesca Di Sauro, che alla sua Zerlina restituisce compiuta carnalità, una maturità che la affianca alle altre conquiste, di cui condivide smalto vocale e spunti interpretativi.
Tutte le sfumature del grigio connotano l’approccio registico di Chiara Muti, su scene di Alessandro Camera e costumi, assai eleganti, di Tommaso Lagattolla. È un Don Giovanni gramsciano, quello immaginato dall’artista fiorentina: fa pensare alla visione di Joseph Losey, che inaugurava il suo celeberrimo film-opera del 1979 ricordando lo stato aurorale in cui «il vecchio muore e il nuovo non può nascere; e in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati.» Circondato da velari di stampo settecentesco, l’impianto scenico raffigura le rovine di un palazzo, la sua facciata diroccata, venata da ferite, pronta a schiudersi su botole da cui fanno capolino gli attori: non ancora personaggi, ma pronti a indossare gli abiti che calano dall’alto, appesi a grucce sospese, quasi ci fosse una volontà superiore che ne indica e prefigura il destino. È un gioco delle parti pirandelliano, e che proprio per questo si infittisce di citazioni strehleriane, nelle raffinate silhouette che si stagliano sullo sfondo colorato come nella moltiplicazione di personaggi che commentano l’azione: le nere parche che assistono al duello iniziale come la dozzina di figure femminili che ironicamente illustrano l’Aria del catalogo, immagini di un idealtipo, eterno o forse mai esistito. Per questo i costumi di Lagattolla, legati alla foggia settecentesca, si concedono delle licenze nel vestire Elvira come una femme fatale della Belle Époque o Zerlina come una bambola alla Kokoschka: vivono tutte negli occhi del mito che le ha rese vive, anche se solo per un istante, e che ha permesso loro di affacciarsi alla luce, prima di farle precipitare nel vuoto. Nell’ultimo quadro, quando il palazzo ruoterà su se stesso lascerà scorgere i recessi più oscuri di un cimitero di maschere, le imperturbabili eppur elegantissime marionette della Compagnia Carlo Colla, resti umanissimi di un passato che si è realizzato solo e unicamente sulla scena.
Don Giovanni è il dominus incontrastato, il gran burattinaio di un microcosmo che, privo della sua presenza, non ha alcuna ragione di esistere. Nell’infittirsi delle citazioni, almeno un paio meritano una menzione. La prima è il rutilante Finale I, in cui sfolgora in cima al palcoscenico quale novello Re Sole, quasi che l’intero numero – il più ampio della partitura, ma tra i più articolati dell’intero repertorio tardo-settecentesco – lo vede protagonista di un’entrée in cui si mescolano musiche di danza e inni alla libertà, circondato da una corte in cui Anna-Madame de Montespan guida un lugubre terzetto di maschere che recano in volto lacrime finte, quasi ex voto di una cupa processione in odore di Emma Dante. Ma la seconda, forse ancor più illuminante, riguarda l’ultima cena di Don Giovanni, che troneggia su una sedia che non è difficile identificare nella celeberrima poltrona di Molière, quella utilizzata per il Malade imaginaire su cui si accasciò la sera del 17 febbraio 1673, còlto da un fulminante accesso di sangue, oggi forse il più prezioso cimelio della Comédie-Française. Solo allora si comprende come l’ultimo quadro sia un irresistibile arsenale della apparizioni, il corrispettivo della grotta di un’Illusion comique di corneilliana memoria, apologia di un teatro nel teatro in cui tutto si ricompone, infine, in un equilibrio superiore. Per questo, precipitato Don Giovanni tra i fumi dell’inferno, il sestetto dei personaggi si spoglia dei costumi di scena per ritornare alle cure quotidiane, ma per sempre segnato da un inestinguibile soffio d’eternità.
Teatro Massimo – Opera e Balletti 2022/23
DON GIOVANNI
Dramma giocoso in due atti
Libretto di Lorenzo Da Ponte
Musica di Wolfgang Amadeus Mozart
Don Giovanni Luca Micheletti
Donna Anna Maria Grazia Schiavo
Donna Elvira Mariangela Sicilia
Don Ottavio Giovanni Sala
Leporello Alessandro Luongo
Zerlina Francesca Di Sauro
Masetto Leon Košavić
Il Commendatore Vittorio De Campo
Orchestra e Coro del Teatro Massimo
Direttore Riccardo Muti
Maestro del coro Salvatore Punturo
Maestro al fortepiano Alessandro Benigni
Regia Chiara Muti
Scene Alessandro Camera
Costumi Tommaso Lagattolla
Luci Vincent Longuemare
Nuovo allestimento in coproduzione con il Teatro Regio di Torino
Palermo, 2 novembre 2023