Nel centenario della nascita di Franco Zeffirelli (12 febbraio 1923), Rai Cultura dedica al regista e scenografo, autore di memorabili produzioni operistiche nei maggiori teatri del mondo, lo spazio dedicato all’opera in onda nelle domeniche di febbraio alle 10.00 su Rai 5. Si comincia domenica 5 febbraio con la storica produzione di Carmen di Bizet, debutto areniano di Franco Zeffirelli, che firma anche le scene. Nel cast, Clémentine Margaine, Gilda Fiume, Brian Jadge, Luca Micheletti con l’Orchestra, Coro e Ballo della Fondazione Arena di Verona. Sul podio, Marco Armiliato. Maestro del Coro Ulisse Trabacchin. Regia tv di Fabrizio Guttuso Alaimo. Riproponiamo qui la recensione di Roberto Mori riferita alla prima dell’opera, dove il ruolo di Micaela era sostenuto da Karen Gardeazabal, anziché da Gilda Fiume come nella recita ripresa dalla Rai.
Come la sua protagonista, Carmen è un’opera nomade e mutevole, capace di suscitare una gamma fluida e dinamica di significati. La storia dell’amore illegittimo tra una zingara e un brigadiere basco è a conti fatti molto ottocentesca e molto francese, per quanto tratti di gitani e di Spagna. Vero è che, basandosi solo su una parte del racconto di Merimée, i librettisti di Bizet trasformano Carmen in una donna emancipata, in grado di prendere in mano il proprio futuro in un modo che all’epoca viene considerato ammissibile soltanto per gli uomini. Sarà questo spirito di indipendenza e libertà a conquistare il pubblico, ma anche esegeti illustri come Nietzsche. Il contesto di creazione della versione operistica è però la Francia dell’Ottocento, dove la voglia di indipendenza femminile viene considerata ancora qualcosa di diabolico e da dover tenere a freno. Non a caso Don José chiede ripetutamente a Carmen: “Tu es le diable?” e lei risponde con risoluta ironia: “Oui”. A seconda del contesto storico e culturale, insomma, Carmen viene recepita ora come diabolica femme fatale, ora come donna emancipata, a volte in entrambi i modi. Proprio questa duplice identità stereotipica ha contribuito a garantire alla storia la sua ubiquità e la sua forza, e dunque la capacità di sopravvivere ai cambiamenti interpretativi e ai diversi adattamenti in merito alle implicite questioni di genere, etniche e razziali.
Per Franco Zeffirelli, glorioso difensore e custode della tradizione scenica e registica all’italiana, Carmen non poteva essere che una donna fatale dotata di fascino diabolico, capace di far perdere all’uomo il controllo di sé e ogni riguardo per la propria posizione sociale. Una vamp, magari anche un po’ vampira, che porta il maschio alla distruzione e che per questo deve pagare con la vita: la conclusione violenta segna infatti la normalizzazione della parabola di Carmen, che da figura trasgressiva (secondo la filosofa Catherine Clément “un po’ puttana, un po’ ebrea, un po’ araba, del tutto illegale, sempre a margini della vita”) può assurgere così al martirio. Anche nel celebre allestimento ideato per l’Arena di Verona, modificato più volte nel corso degli anni e riproposto in una versione nuovamente aggiornata per l’inaugurazione dell’Arena Opera Festival 2022, la Carmen di Zeffirelli si presenta come una gitana ancheggiante e rapace, una donna aggressiva e sprezzante, sensuale o matronale a seconda delle interpreti del momento.
Questa visione vecchio stile, ottocentesca, ma comunque legittima, si accompagna, nello spettacolo originario firmato nel 1995, a una concezione scenico-registica tradizionale, dove le ambientazioni sono estensioni degli umori dei personaggi, con una Spagna intesa come luogo del pittoresco, ma soprattutto luogo della passionalità e dell’istinto, dei conflitti primari: amore/odio, maschile/femminile, libertà/legami. A prevalere è il gusto della scena dipinta e del tutto pieno: Zeffirelli in pratica stipa tutta la superficie disponibile, ricostruendo metro per metro una Siviglia colorata, ma anche prospettive di montagne adagiate in “cinemascope” sulle gradinate. Una versione spettacolare, contrassegnata da un realismo bozzettistico curato nei minimi dettagli. L’esito è un tripudio di cromie roventi e notazioni folcloristiche: uno spettacolo senz’altro godibile nel suo genere, apprezzabile per la scioltezza dei vorticosi movimenti di massa e la concentrazione drammatica nella recitazione dei protagonisti.
Nel 2009, con un intervento scenografico piuttosto drastico, Zeffirelli, quasi in preda a una voglia tardiva di minimalismo, spazza via dalle gradinate tutte le casupole e le costruzioni a dimensione reale per lasciare posto a giochi di luci e proiezioni. Il palcoscenico viene così delimitato da una serie di alti pali che nel secondo e nel quarto atto sorreggono dei manifesti d’epoca con raffigurazioni di toreri e carmencite. Nel terzo atto, i velari dipinti ritraggono invece profili di montagne. Per quanto l’effetto risulti meno oleografico, la presenza di grandi masse e la distribuzione delle danze in ogni angolo del palcoscenico, oltre che i costumi sgargianti di Anna Anni, sono più che sufficienti a soddisfare la voglia di spettacolarità da parte del pubblico areniano.
La versione attualmente in scena, e annunciata dalla Fondazione Arena come “definitiva” è in pratica un mix delle edizioni del 1995 e del 2009. Ritroviamo pertanto la Siviglia ricostruita a grandezza naturale sugli spalti, come nello spettacolo originario, ma anche i manifesti e altri elementi scenografici della versione successiva. Non mancano nemmeno elementi scenici inediti, ricavati dai bozzetti originali e mai realizzati in precedenza, come i due velari che incorniciano in alto il proscenio. Ne risulta un accumulo eccessivo che si traduce in scene a volte stipate all’inverosimile (mentre Zeffirelli stesso nei suoi restyling tendeva a lavorare per sottrazione) e in una impostazione registica molto trafficata, a tratti caotica. Nel terzo atto, poi, viene meno l’alone lunare, vagamente onirico e spettrale, di indubbia suggestione, che il grande regista e scenografo fiorentino aveva saputo evocare.
In questo contesto iper-tradizionale, registicamente perfetto per l’interprete del debutto nel ‘95 (Denyce Graves: ferina, sfumata nel canto, seducente nella danza, sensualissima), Clémentine Margaine risulta un po’ spaesata. La sua Carmen, più che per le risorse timbriche e la presenza scenica, è interessante per il fraseggio analitico e la varietà degli accenti, per le sfumature della linea di canto (alcune delle quali, tuttavia, si perdono nello spazio areniano). Il mezzosoprano francese è insomma incline a delineare un personaggio “moderno”, cerebrale più che sensuale, che in un allestimento di taglio più contemporaneo potrebbe senz’altro figurare meglio.
Vuoi per peculiarità timbriche che per temperamento, nemmeno il Don José di Brian Jagde è un campione di passionalità e sensualità. Il tenore americano tuttavia ha una vocalità ben impostata, una fonazione corretta, ed è senz’altro efficace nel canto drammatico grazie all’accento incisivo e al fraseggio mordente. Nell’espressione lirico-amorosa è invece più generico e dispone di una gamma di colori e sfumature non molto ampia.
Pienamente in sintonia con la concezione dello spettacolo di Zeffirelli è la Micaela di Karen Gardeazabal, che tratteggia la consueta ragazza fresca di sacrestia, dolce e devota: l’emissione corretta, il timbro piacevole e l’espressione sono senz’altro funzionali al soffuso lirismo del personaggio. Scenicamente disinvolto, spavaldo e comunicativo è l’Escamillo di Luca Micheletti, che si fa apprezzare pure per la vocalità brunita, il fraseggio incisivo e l’attenzione alla parola.
Fra le parti di fianco spicca Biagio Pizzuti, che dà un singolare rilievo al ruolo di Morales grazie alla voce ben timbrata in tutta l’estensione e all’espressione accurata. Si distinguono anche i contributi puntuali di Gabriele Sagona, Zuniga, Carlo Bosi, Remendado, e Nicolò Ceriani, Dancairo. Più opaca la prova di Daniela Cappiello, Frasquita; funzionale Sofia Koberidze come Mercedes. Apprezzabile il contributo del coro preparato da Ulisse Trabacchin; trascinanti le coreografie di El Camborio riprese da Lucia Real e affidate al Corpo di Ballo della Fondazione Arena e agli ottimi danzatori della Compagnia Antonio Gades.
Dal podio Marco Armiliato si segnala per una conduzione professionale, oculata, senza eccessi né sbavature, in buona sintonia sia con i cantanti che con il coro. Non siamo di fronte a una lettura di taglio originale, o interessata ad approfondire i molteplici, contrastanti climi dell’opera. Nondimeno Armiliato dirige con adeguata brillantezza le parti d’ambiente, trovando colori ora crepuscolari ora accesi, e porta alla giusta atmosfera drammatica i momenti in cui si consumano i destini dei personaggi, dando alla tragedia di Carmen proporzioni asciutte.
Accoglienze festose da parte del pubblico che gremiva l’Arena, finalmente ritornata alla piena capienza. La recita, come ricordato dal sovrintendente Cecilia Gasdia in apertura di serata, era dedicata a Renata Tebaldi ed Ettore Bastianini, di cui quest’anno ricorrono i centenari della nascita.