Il primo atto bianco, come il secondo della Sylphide e Giselle, il secondo e il quarto nel Lago dei cigni. Vuoto sul fondo ma in terra intralciato da una ventina di cavalli di Frisia, le croci in ferro di guerra anticarro con tanto di neon (come quelli orrendi e pure fastidiosi della Carmen di Finzi Pasca) fra le quali si aggira e agita il coro in foggia di gente qualunque, con piccoli gesti ossessivi atti a siglarne l’alienazione al passo con i nostri tempi. Il gruppo maschile, in sortita tra i fumi a mo’ di quarto stato di Pellizza da Volpedo, ritorna a stretto giro in abiti alla buona brandendo qualcosa di comune in mano: un ombrello o la gamba di un tavolo, un’accetta o una scopa, un estintore, un ombrellone laddove la sezione delle donne, madri e mogli anni Sessanta imbellettate, si armano di carrelli della spesa, di sedie pieghevoli, una bici e una palla, carrozzine e passeggini, di uno stend con i giocattoli alla Parpignol e quant’altro. Una folla, in verità, che sembra uscita di fresco da un istituto di salute mentale.
L’atto secondo, invece, è totalmente in nero e foderato da sacchi tipo spazzatura condominiale, parimenti vuoto sul fondo e sempre con le croci suddette ma presto tirate su in volo, con relativi teli in plastica stropicciata, giocandosi sul piano del torvo e dell’implicita battaglia. Il coro dei soldati reca in mano delle tristissime buste di plastica che, anche qui con gesto reiterato, disordinatamente fanno girare e oscillare. Contengono spesa? Indifferenziata? Ma no: ci sono i peluche che andranno appesi al loro collo nell’acuminata equazione sacrificale, al pari dei bambolotti pendenti al primo atto dalle croci, che vede i bambini prime vittime di guerra. Ma per questo, drammaticamente, basta aprire ormai da mesi, e in questi giorni sotto pari segno, la tv.
A latere: vaghi accenni a sgozzamenti e ad atti di autolesionismo, un mancato stupro su un divano che non sa né di violenza né tantomeno di eros, corde lunghissime con cui i personaggi si legano e slegano senza troppa convinzione e ancor meno sortendone gli effetti. Piuttosto, brutture, violenze gratuite (pessimi i pugni e gli schiaffi inferti al contenuto di una carrozzina vista di spalle a sfregio del Finale I) e distrazioni in irriverente quanto inutile divergenza con il dettato in partitura, finanche a coprire con i rumori dei materiali poveri in scena i suoni in buca oltre il non raro scambio, nella comunque scarsa gestualità, del serio con il comico. Cosa, quest’ultima, concessa a suo tempo all’autore riciclando e prestando sinfonie o arie da un’opera all’altra al di là dei generi, ma non certo agli artefici di un odierno e si spera storicamente informato contenitore registico-scenico. Quanto ai protagonisti, in prossemica vecchia e statica o al massimo in posizioni scomode per il canto, tanto felice non era nemmeno l’idea di presentare il comandante della colonia veneziana in Negroponte attaccato a una flebo con asta, l’eroina nei panni di un’Alice sempre sopra le righe in un paese-fiera delle banalità, un amato a metà via fra un pirata e un Robin Hood con giubbetto antiproiettili, il più famoso condottiero musulmano in abiti da studente di famiglia benestante e giusto con il pallino della dittatura islamica sul mondo, come da carta geografica con attrazione alla Hitler versione Chaplin baciata e amata, portata a mantello, poi strappata, messa in bocca e sputata. Non sfugga, in tutto ciò, l’assenza delle note di regia dal libretto di sala. In compenso, nel disegno complessivo, si fanno salve le luci e qualche tinta di buon impatto.
Insomma, tanti applausi per il direttore e le voci a tutte le recite ma fischi roboanti alla prima, con tanto rumore per il nulla della regia a firma del pur quotato, più volte premiato e attesissimo artista spagnolo Calixto Bieito scelto in esordio partenopeo dal Teatro San Carlo di Napoli per riportare in nuova produzione dopo circa due secoli sulle assi primigenie il Maometto II di Gioachino Rossini, con le scene di Anna Kirsch, i costumi di Ingo Krügler e le luci di Michael Bauer. Dunque un dramma per musica appositamente scritto per Napoli, rappresentato per nove sere dal 3 dicembre 1820 nel massimo tempio lirico della città nei giorni in cui il compositore ne era tra l’altro ideale vertice artistico ma segnato all’epoca da un clamoroso insuccesso, dovuto senz’altro alla sperimentale sagomatura dell’opera e al lungo finale tragico a fronte di un poker di voci di primissima sfera (Nozzari-Colbran-Comelli en travesti-Galli), pertanto tornando con una sola recita e in unica ripresa nel giugno 1825. Il tutto, tra il rifacimento con finale lieto per le scene veneziane (1822) e il più fortunato reimpasto cambiando titolo e pelle per Parigi, come Le siège de Corinthe. Da lì, al San Carlo, non si era mai più rivisto. Giuste dunque le premesse di programmazione e grande di conseguenza la curiosità anche per il varo dell’ottima edizione critica curata da Ilaria Narici per la Fondazione Rossini di Pesaro, nonché per un cast vocale e un direttore d’orchestra notevolissimi. Ma stessa sorte, in pratica, dell’esordio ai tempi di Rossini con un risultato però stavolta – niente dissensi alla recita qui in recensione, ma solo perché assenti regista e autori di scenografia, costumi e luci – che pesa esclusivamente sulla nuova produzione commissionata dal Teatro San Carlo. Produzione che dice abbastanza sulla concreta latitanza di una direzione artistica (a tutt’oggi nelle mani del sovrintendente Stéphane Lissner) che dovrebbe essere ben più radicata nell’esatta valorizzazione dell’intera storia dell’opera e magari con ben più di un aggancio all’identità teatrale napoletana, con relativa verifica della pertinenza dei prodotti in uscita, pur dinanzi a indiscutibili competenze manageriali e di casting. Vale a dire – si pensi già solo al trash della Tosca in stile Gomorra di De Angelis, all’Otello militarizzato secondo Martone e all’assurdo Don Carlo firmato dal tedesco Klaus Guth – che la frizione in cortocircuito fra quel che si vede e quel che si ascolta non giova mai (si badi, non si tratta in questi casi di tradizione versus trasgressione, ma di incoerenza e scollamento) risultando fortemente lesiva pur dinanzi al più grande pregio delle voci o comunque della parte musicale, facendo talvolta addirittura rimpiangere la mutila e comunque mai esaltante soluzione dell’opera in forma di concerto.
Detto ciò e Coro escluso, sul quale va comunque fatta una debita distinzione fra le sezioni a tutto vantaggio per fibra e intonazione della maschile, si premia la prova di grande valore di tutti gli interpreti in squadra, a partire dalla dettagliatissima direzione musicale di Michele Mariotti su cui, di fatto, si è spostato il carico dell’intero impianto narrativo, drammaturgico e di stile. Che Mariotti sia cresciuto da buon pesarese qual è respirando praticamente da sempre l’aria salubre delle produzioni rossiniane migliori è cosa nota a tutti ma, nel caso specifico del Maometto II in versione napoletana, abbiamo avuto modo di apprezzarne ancora una volta di più la sapienza con cui il maestro entra in totale simbiosi con lo spirito e il linguaggio praticamente unico del compositore, scegliendo, staccando e sfaccettandone i tempi, chiarendone l’articolazione di numeri e forma. A ciò si aggiungano la cura estrema e costante degli attacchi ai musicisti in buca come ai cantanti in scena, la forza dei tremoli e il piglio delle strette, l’invenzione di colori e curvature dinamiche, il gioco di forchette nell’agogica oltre il saldo cimento tecnico per la restituzione di un mondo sonoro dalle angolature formali ed espressive molteplici. Per nulla facile quanto a controllo e sostegno in termini di scontorno ritmico, di alte temperature virtuosistiche, di colpi e connotazioni teatrali.
In assenza di Sinfonia d’apertura nell’edizione partenopea, è l’Introduzione declinata al maschile a immetterci in via diretta nella vicenda elaborata dal librettista napoletano Cesare Della Valle intorno ai poli del triplice scontro militare, religioso e di sentimenti fra veneziani da un lato (il provveditore della colonia di Negroponte Paolo Erisso, i generali Calbo e Condulmiero, la figlia Anna) e musulmani dall’altro (Maometto II e il confidente Selimo). In realtà nelle primissime battute la tensione è palpabile solo nel suo gesto, ma poi l’Orchestra della Fondazione in via crescente ne raccoglie il segno mettendo molto bene a fuoco i tanti dettagli in partitura fra colpi di cannone e slanci eroici, impennate dei singoli e contrappunti d’assieme, affreschi a lunga gittata come il peculiare Terzettone “Ohimè! Qual fulmine”, scene ad alta tensione, squarci e ombreggiature emotive. Compresa quella bellissima velatura in trasparenza, delicatamente beethoveniana, impressa al termine in abbinamento al motivo delle ceneri della moglie di Erisso e in reminiscenza nell’imminente ricongiungimento di Anna alla madre attraverso la morte. Molto bene i legni, brava l’arpa messa anche su in scena.
Sugli scudi e ciascuno con i propri meriti gli interpreti dell’intero cast. Straordinario è il Maometto del basso cantante Roberto Tagliavini, condottiero di un presunto mondo barbarico ma vocalmente nobile e razionale (viceversa scenicamente brutale e impulsivo) tentando in tutti i modi di salvare il salvabile in virtù dell’amore. Sin dal suo esordio con la cavatina “Sorgete: e in sì bel giorno”, spicca per la forza e lo smalto di un’emissione incisiva e bella, di tinta bronzea e sonante, tecnicamente ferrata nel salire di quota nella relativa cabaletta “Duce di tanti eroi” pur tra le avversità delle buste distraenti e rumorose agitate dal coro. La sua prova iniziale trova ulteriore conferma nell’evoluzione emotiva scolpita a tutto tondo lungo il duetto all’atto secondo (Anna, tu piangi?), fra melismi delicati e brutali insistenze.
Parimenti lodevole per la fermezza di emissione, il colore e la tempra degli squilli all’acuto è il Paolo Erisso del tenore Dmitry Korchak, padre intenso e prigioniero di grande dignità, saldo nel cesellare il suo fraseggio con padronanza di registro e rara sensibilità oltre che eleganza di stile. Altro asso della compagnia è l’Anna di Vasilisa Berzhanskaya, mezzosoprano russo con estensione fino all’area sopranile che, già sorprendente Rosina nel Rossini del Barbiere di Siviglia romano firmato Martone, Premio Abbiati quale migliore spettacolo in era Covid e difatti in formato tv, sfodera qui un canto dalle mille prodezze tutte sempre sul fiato, pertanto concrete e rotonde oltre che resistentissime fino alla fine, ben vellutate quanto affidabili dal grave all’acuto e in volo al sovracuto fra salti, trilli, ribattuti e altre diavolerie rossiniane scritte per l’amata Colbran. Tipica donna kamikaze che rovina tutto tirando corde e sorti (di qui forse l’idea di Bieito dell’autolesionismo e delle funi) entro lo scontro da sempre insanabile fra occidente cristiano e mondo islamico, mostra unghie e carattere innanzitutto attraverso la tenuta di un formidabile arco canoro teso fra la cavatina di sortita “Ah che in van su questo ciglio” e la grande scena e aria con Coro “Alfin compiuta è una metà dell’opra” chiusa standosene seduta, dritta e sanguinante, sull’orlo del proscenio.
Non proprio rossiniana ma prestante soprattutto nella seconda metà dell’opera è il mezzosoprano armeno Varduhi Abrahamyan, scelta per dar voce e forma en travesti al condottiero Calbo. Anche lei sfodera risorse e abilità di canto atte a tener testa alle tante difficoltà di slancio ed esecuzione, culminando con gloria nell’aria “Non temer, d’un basso effetto”. In posizione da comprimari ma con interventi canori di tutto rispetto, infine, il Condulmiero e il Selimo affidati ai tenori allievi dell’Accademia lirica della Fondazione, l’ottimo Li Danyang e il vibrante Andrea Calce.
Applausi per tutti gli interpreti, assai vivi e comunque smorzati sotto il peso del contenitore visivo, con ovazioni speciali per il direttore ospite sul podio.
Teatro San Carlo – Stagione 2022/23
MAOMETTO II
Dramma in due atti
Libretto di Cesare Della Valle
dalla sua tragedia Anna Erizo
Musica di Gioachino Rossini
Paolo Erisso Dmitry Korchak
Anna Vasilisa Berzhanskaya
Calbo Varduhi Abrahamyan
Condulmiero Li Danyang
Maometto II Roberto Tagliavini
Selimo Andrea Calce
Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo
Direttore Michele Mariotti
Maestro aggiunto del coro Vincenzo Caruso
Regia Calixto Bieito
Scene Anna Kirsch
Costumi Ingo Krügler
Luci Michael Bauer
Nuova produzione del Teatro San Carlo
Napoli, 2 novembre 2023