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Napoli, Teatro San Carlo – Madama Butterfly

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Al Teatro San Carlo di Napoli, per la ripresa in coda autunnale della stagione lirica, è tornato con vivo successo il Giacomo Puccini della Madama Butterfly nella rilettura del regista Ferzan Özpetek, dunque nel cupo ma potente allestimento proposto quattro anni fa con le scene di Sergio Tramonti, i costumi di Alessandro Lai e le luci di Pasquale Mari (qui la recensione). Vale a dire restando, giusto con qualche ritocco andato a smorzare gli azzardi nel duetto d’amore a corpi seminudi e le allusioni omossessuali per Goro e Suzuki a tutto vantaggio di una maggiore ricerca gestuale, nel complesso assolutamente fedele alla prospettiva moderatamente moderna di un Giappone post-bellico serrato fra un paesaggio di mare iper romantico alla Friedrich e un interno pseudo-borghese senza tempo, sempre più chiuso fra le oppressive e alte pareti color piombo pari alle due civiltà antitetiche che parimenti spezzano i veri sentimenti e i “miraggi ingannatori” della giovanissima ma qui neanche troppo fragile gheisha Cio-Cio-San. Restano inoltre ben fermi, intorno, i due cardini delle quattro figuranti silenti che attraversano la sala nel buio vestite di rosso (colore-segnale che ricorda nei fiori e negli abiti la riga di sangue che macchia sin dal principio l’intero spettacolo) e il bellissimo videoritratto d’autore realizzato ad hoc, a pieno sipario sul bocca chiusa del coro, dal fotografo Luciano Romano. E così, al termine, resta anche il suicidio mostrato al pubblico secondo il rito al femminile, ossia con taglio alla gola e non al ventre.

Il tutto con una buona dose di novità fra scelta degli interpreti, direzione dal podio, un paio di debutti e soprattutto, sullo sfondo, lo strano caso che al momento resta a cadenza sospesa su sovrintendenza bipartita, con comprensibile assenza dalla sala nelle sere successive alla première sia di Carlo Fuortes (già vertice dell’Opera di Roma e amministratore delegato dimissionario della Rai fortemente voluto al San Carlo dal governo, votato dal CdI e già insediatosi da settimane), sia dell’ex sovrintendente Stéphane Lissner (sostenuto invece da una discreta fetta di pubblico e naturalmente dal suo staff dirigenziale), spedito anzitempo in pensione con legge apposita ma reintegrato di fresco sulla sua poltrona dal tribunale di Napoli.
Inevitabile, a fronte di ciò, qualche netto commento di imbarazzo fra il brusìo della gente in attesa dello spettacolo, là mentre scorreva l’effetto acustico dello sciabordìo delle onde ideato dal regista e cineasta fuori campo accanto agli accenni in prova di quell’inno americano (che in prima enunciazione in buca verrà pure sbagliato) e dei famosi cinguettii sparpagliati dall’alto secondo quanto inserito da Tito Ricordi alla prima delle prime per rendere più palpabile l’alba giapponese suscitando, invece, un putiferio di versi “da arca di Noè” con relativo, famigerato fiasco.

Alla tonalità d’impatto ma pur sempre monocorde della scena ha risposto la plasticità a tinte più che vive della narrazione musicale affidata nell’occasione, e per la prima volta sotto tale titolo e autore, al direttore principale Dan Ettinger. Una narrazione appassionata e metricamente attenta, pertinente pur se propensa a vincere facile puntando dritto alla bellezza e alla voluttà del melos pucciniano rispetto allo scavo dei tanti dettagli di ordine dinamico e armonico, aggiungendo qua è là qualche guizzo di originalità nel frettoloso fugato iniziale, nei passaggi in vistoso staccato, spingendo in fortissimo gli apici drammatici o rumoreggiando in chiave sinfonica, guardando da Berlioz a Mahler. Costante e meritevole a ogni buon conto l’attenzione di Ettinger alle singole voci, alla tenuta d’assieme e alla forza descrittiva delle molteplici immagini sonore evocate in partitura. Il Coro, ugualmente in giorni di interregno data l’uscita di un’altissima guida qual è stato José Luis Basso, oggi al Teatro Real di Madrid, e il prossimo arrivo del futuro maestro Andrés Máspero, è stato curato con dovizia (al meglio negli interventi di maggiore spessore timbrico e drammatico in soluzione mista) dal maestro collaboratore, in tal caso aggiunto, Vincenzo Caruso.

Quanto al sistema dei personaggi e nell’intero quadro delle voci i risultati migliori arrivano innanzitutto dagli uomini. Per nulla odioso e superficiale è il Pinkerton che il tenore Saimir Pirgu scontorna con autenticità interpretativa rara, coniugando pieno slancio, colore pucciniano e fiati sempre ben ponderati entro una gamma notevolissima di sfaccettature umane, emotive e canore. La sua morale libertina in sortita (Dovunque al mondo lo yankee vagabondo), introdotta dall’inno della Marina militare americana sulla cui quarta giusta alla seconda battuta scivolano le trombe riscivolando in coda, è enunciata con la “franchezza” prescritta, dando corpo ai suoni più alti e articolando con intelligenza legature e accenti. Ne offre un chiaro esempio già il suo Allegretto “Amore o grillo” che sfoggia in un unico arco di coerenza stilistica mezzevoci sognanti via via incalzate in crescendo, con salti perfettamente poggiati e un si bemolle a luce piena, per poi di lì a breve esibire in duetto una virilità amabile nel cantabile “Viene la sera” presto infiammata in abbraccio febbrile e avvolgente lungo l’Andante “Bimba dagli occhi pieni di malìa”. Così come sonoro e sincero è al termine il suo commiato siglato dal rimorso nel celebre arioso aggiunto in edizione seconda “Addio fiorito asil”.
Al suo fianco c’è inoltre lo Sharpless del baritono Ernesto Petti, salernitano classe 1986 e primi studi con il maestro Otello Visconti, che presenta una voce importante e di scuola italiana antica, solida e nobile al contempo, di saldo sostegno al cospetto del canto dei principali protagonisti, di sensibilità non comune nell’aprire il terzetto di coda.
Terza voce maschile bellissima e ancor più sorprendente è quella di Goro, qui pur sempre dall’aspetto femmineo ma per fortuna riconfigurato nella nuova lettura di Özpetek rispetto all’impronta in parodia alla Renato Zero ritagliata per lui a suo tempo. A interpretarlo è Paolo Antognetti, tenore di ottima tecnica e di fibra piuttosto scura, particolarmente intensa. Piuttosto alla Cavaradossi. Il che fuga dal personaggio quel cliché caricaturale in effetti prescritto per il viscido sensale in pentagramma fra suoni nasali e condotte maliziose ma, in tal caso, la mutazione ci sta perché vien fuori un ruolo di bel peso e senz’altro di maggiore interesse. Buone anche le prove di Ildo Song (lo zio Bonzo) e di Paolo Orecchia per il principe Yamadori.

Doppio e solo in parte convincente per esclusive questioni di stile, invece, l’atteso debutto delle due interpreti femminili principali. Il soprano lirico puro Ailyn Perez dà infatti forma e voce a una Cio-Cio-San che non conosce diversità d’accenti fra la sposa bambina al primo atto e la donna e madre pronta al sacrificio estremo nell’atto terzo. Dunque poco lavorando, al di là delle prescrizioni registiche mirate a conferirle una diversa autonomia e un’inedita forza, sulle diffrazioni molteplici interne alla sua non facile e frastagliata linea di recitazione e canto ma conferendo, grazie a un talento canoro baciato dal cielo, una pasta timbrica costantemente rotonda e non di rado troppo aperta nei suoni pur nell’evidente bellezza di linea del suo canto dal grave all’acuto, con timbri di velluto e sfumature secondo i segni in pentagramma, ma con scarsa coscienza e radici nel dramma. Fermi restando i modelli eccelsi e orgogliosamente italiani di recente messi a segno all’Opera di Roma in doppio cast da una superlativa Eleonora Buratto e da Maria Teresa Leva, la Perez resta nell’occasione tanto Micaela e Liù, anche Mimì o Musetta, ma la metamorfosi per la farfalla Butterfly sembra ancora, per lei, piuttosto lontana. Ciò detto, la sua voce si sposa a meraviglia con quella di Pirgu nel duetto d’amore, incanta per timbro nel suo sogno a occhi aperti “Un bel dì vedremo”, ampiamente applaudito a scena aperta, ma poco convince per lo stacco eccessivo nelle battute interrogative o nella ricerca di un naturalismo che risolve in vibratino, talvolta spingendo o perdendo forza al climax. Migliori gli esiti nell’Andante molto mosso “Che tua madre vedrà” e nell’ultimo abbraccio al figlio “Piccolo Iddio”.
Poco pucciniana ma puntuale in ogni dettaglio della sua prova in progressivo crescendo è la Suzuki interpretata per la prima volta da un’artista di bel calibro e di ampia esperienza qual è il mezzosoprano Marina Comparato, efficace nello scontro con Goro come nell’incantevole duetto dei fiori con la padrona Butterfly. Nella norma gli interventi di Laura Ulloa (Kate Pinkerton), Giuseppe Todisco (Commissario), Antonio De Lisio (Ufficiale del registro), Linda Airoldi (Mamma), Anna Paola De Angelis (Zia), Franca Iacovone (Cugina) e di Giacomo Mercaldo (Yakusidé).
Tanti gli applausi e pubblico in piedi.

Teatro San Carlo – Stagione 2022/23
MADAMA BUTTERFLY
Tragedia giapponese in tre atti
Libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica,
tratta dalla tragedia Madame Butterfly di David Belasco
Musica di Giacomo Puccini

Cio-Cio-San Ailyn Perez
F. B. Pinkerton Saimir Pirgu
Suzuki Marina Comparato
Sharpless Ernesto Petti
Goro Paolo Antognetti
Lo zio Bonzo Ildo Song
Il principe Yamadori Paolo Orecchia
Kate Pinkerton Laura Ulloa*
Yakusidé Giacomo Mercaldo
Il commissario imperiale Giuseppe Todisco
L’ufficiale del registro Antonio De Lisio
La madre Linda Airoldi
La zia Anna Paola De Angelis
La cugina Franca Iacovone

Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo
Direttore Dan Ettinger
Maestro aggiunto del Coro Vincenzo Caruso
Regia Ferzan Özpetek
Scene Sergio Tramonti
Scenografo collaboratore Sandra Viktoria Mueller
Costumi Alessandro Lai
Luci Pasquale Mari

Produzione del Teatro di San Carlo
Napoli, 17 settembre 2023

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