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Napoli, Teatro San Carlo – Beatrice di Tenda

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Quale il senso nel mettere in piedi al Teatro San Carlo di Napoli, per una sola sera e nell’asettica forma di concerto entro il solco di una pratica cavalcata e dunque accettabile in emergenza Covid, l’esecuzione di un titolo bellissimo e raro qual è Beatrice di Tenda di Vincenzo Bellini?
Passati ben 61 anni da quell’unica rappresentazione napoletana nel Novecento che vide trionfare la Sutherland nel ruolo di punta in due recite (a fronte delle nove nell’Ottocento con un totale di quarantatré spettacoli condivisi in testa dalle due Fanny, Tacchinardi Persiani e Marray), significa forse tenere relativamente a cuore la storia migliore della nostra opera, l’impegno speso nello studio delle masse artistiche, il pregio stesso di un cartellone in maggior quota giocato su titoli e allestimenti triti se non ritriti. Il tutto prontamente ripristinando in organigramma a stampa sul libretto di sala il nome del prepensionato sovrintendente Lissner (già al lavoro da mercoledì 20 settembre ma non presente o almeno non notato nell’occasione) laddove quello di Fuortes si era visto volare giusto nei giorni della recente Butterfly.

Premesso ciò, e in ogni caso ribadendo che l’opera non nasce certo per tali formule mutile pur se utili a far numero e colpo nel totale delle proposte in locandina lirica, il penultimo lavoro in due atti e unico dramma storico belliniano proposto nell’edizione critica di Franco Piperno, è stato accolto da sorprendenti consensi, in un teatro quasi pieno, con applausi scroscianti a scena “virtuale” aperta e con trionfo in passerella per tutti gli artisti in chiusa. Il che si spiega con gli indubbi meriti degli interpreti coinvolti. Ma anche perché Beatrice di Tenda, per quanto opera poco nota e segnata da un battesimo non particolarmente fortunato al Teatro La Fenice di Venezia il 16 marzo 1833 sia pur contando sulla celebre Giuditta Pasta nel ruolo eponimo, conserva in sé e come per fermo-immagini a catalogo stile, struttura e lemmi del cristallino Romanticismo lirico belliniano, inoltre ben testando moderne soluzioni canore giocate entro e fuori scena di lì a breve, da altri e massimi compositori, ulteriormente raccolte e potenziate.

Dell’autore reduce due anni prima dai successi di Sonnambula e Norma fermo restando il costante ma qui ultimo connubio con il valente librettista Felice Romani, nonché parimenti a un biennio dai suoi futuri e ultimi Puritani, si colgono infatti come a compendio e in anticipo una scoperta familiarità di spunti tematici e d’accompagnamento unitamente all’estrema chiarezza d’impianto nella canonica scansione drammaturgico-musicale con acme di perfezione nelle grandi arie della protagonista accanto agli ulteriori centri distribuiti fra gli altri numeri e nelle espansioni in crescendo degli assieme (Finale primo, terzetto interno/esterno, quintetto). E, intorno a tali due cardini, ci sono naturalmente la peculiare purezza delle linee melodiche fiorite da una coloratura impervia ma sempre insita al tessuto raffinato e delicatissimo, il portamento duttilmente nobile tanto nei cantabili che nelle più mosse cabalette per le voci maschili, un fuoco drammatico alimentato tra la forza degli accenti nelle scene in recitativo e la levigata tornitura delle forme chiuse ad alta temperatura tecnica secondo il miglior stile e le regole del Belcanto italiano.

Al netto del complemento scenico, il grande merito dell’intelligibilità analitica di tutto ciò spetta, oltre alla bontà della revisione critica, senz’altro al direttore sul podio di Orchestra e Coro della Fondazione scelto per l’occasione, Giacomo Sagripanti, guida più che prestante nella restituzione del dettaglio e nella tenuta dell’insieme (che in ogni caso necessitava di un maggior numero di prove), rivelatosi ancora una volta interprete molto attento alla lezione belliniana, sia in termini di particolare solidità conferita a struttura e forme, sia nella perfetta scelta dei tempi, nel calibrato rilievo ai soli e nel dosaggio dei volumi, di impasti e dinamiche nel rispetto costante dei respiri e del rimbalzo ritmico a sostegno delle voci. Oltre alla prestante risposta dell’orchestra (bene gli archi e bravi oboi, primo clarinetto, primo corno, arpa e percussioni), imprime un’impronta musicale significativa anche al Coro (al momento curato dal maestro aggiunto Vincenzo Caruso) che tuttavia certamente soffre, nell’iniziale sfocatura metrica (scene prima e seconda) degli uomini e nella timbrica ormai palesemente sfibrata (basti l’intro alla cavatina di Beatrice) nel settore femminile, i maggiori disagi per l’ennesimo cambio di vertice stabile. Il Preludio d’apertura, così come Sagripanti ne disegna profili e sostanza con decisione e tratti netti nella tripartizione “Allegro-Più moderato quasi la metà-Allegro agitato”, è già di per sé assai eloquente di quel che si ascolterà a seguire: compatto e vagamente mercadantiano, ben rilevato nei temi, caricato in coda da archi e timpani con accelerando pulitissimo e di grande effetto. Avviata l’azione, la condotta sonora appare infatti sempre curata e puntuale, rivelandosi particolarmente apprezzabile per la notevole plasticità espressiva ritagliata a misura sulle diverse istanze drammatiche e sui singoli caratteri messi a sistema da una ben aggrovigliata trama pseudostorica tipica per l’epoca: quanto a coordinate di spazio e tempo, siamo nel Castello di Binasco, borgo visconteo al confine fra il territorio milanese e pavese lungo il naviglio, nell’anno 1418. Al centro c’è il debito quadrilatero amoroso a circolo irrisolto e nefasto che vede in campo il giovane Filippo Maria Visconti duca di Milano (baritono e antagonista) malmaritato con la più matura ma ricca Beatrice de’ Lascari contessa di Tenda (soprano, protagonista), già vedova del valoroso Facino Cane; quindi, Agnese del Maino (soprano e oggetto del desiderio) amante di Filippo ma attratta da Michele Orombello signore di Ventimiglia (tenore, coprotagonista) che a sua volta, in segreto, ama riamato Beatrice. Motore della vicenda è pertanto la gelosia di Agnese che per vendetta rivela a Filippo il presunto tradimento, letto in concreto unitamente all’accusa di complotto vedendo Orombello inginocchiato dinanzi a Beatrice. Il tutto sullo sfondo dell’incombente scontro tra le due diverse fazioni, nemiche e armate. Processo, sentenze, e patibolo fanno il resto, con il sublime e commosso primo piano finale su Beatrice che si incammina lentamente verso l’ingiusta morte, perdonando i suoi nemici.

Nel quadro di un cast ben assortito forse perché neanche troppo esteso e in ogni caso bilanciato con un equilibrio in verità piuttosto raro, corre l’obbligo di premiare le due voci più giovani distintesi e personalmente molto apprezzate nell’occasione, al di là di quanto messo a segno dai nomi di punta e di maggior carriera. Innanzitutto il Filippo del baritono polacco Andrzej Filonczyk, adorabile Figaro nel premiato Barbiere di Siviglia romano firmato Martone e magnifico Marcello nella recente Bohème con la regia di Emma Dante, alquanto esposto in partitura in testa e in coda prima del finale. Forte di una tecnica di scuola molto solida e di un’emissione potente ma mai ridondante, in special modo idonea per pasta e colore alla scrittura del primo Ottocento italiano, Filonczyk garantisce alla sua linea di canto consistenza e nobiltà, perfettamente e duttilmente gestendo dizione, ritmi e accenti, portamenti, abbellimenti, fiati e corone infinite al servizio di un melos che di volta in volta è sfogo insofferente, sincera dichiarazione amorosa per la “divina Agnese” (splendido il lungo sol a sigillo della sua sortita con coro), passione, pietosa incertezza e tragica sentenza come da superba aria finale (Ah! non poss’io… Non son io che la condanno), mordace nel dire quanto stentorea negli accenti sonori puntualmente chiusi da note potenti su fiati lunghissimi.
L’altra sorpresa arriva dall’Agnese di Chiara Polese, figlia d’arte (il padre Giuseppe, ex corista del San Carlo, direttore d’orchestra, compositore, maestro di coro) vocalmente perfezionatasi all’Accademia lirica della Fondazione guidata da Mariella Devia e, nell’occasione, finalmente ascoltata in un ruolo più ampio che ne ha posto in piena luce l’autenticità di fibra e la bellezza drammatica del timbro, l’ottimo gusto musicale nell’articolazione delle frasi accanto a una preparazione tecnica che reca tracce concrete della lezione impagabile di una belcantista assoluta qual è stata e resta la Devia. Il suo canto è fra i primi ad arrivare con la sortita dietro le quinte sulle note dell’arpa (Ah! non pensar che pieno) con bella estensione e pregnanza di un’ascesa svettante per proiezione e luce su un sublimato si bemolle acuto. Magnifico lo scatto ritmico (merito anche dell’ottimo Sagripanti) e intervallare nel duetto in serrato crescendo con Orombello (I.4) chiuso da un super do finale e applauditissimo per entrambi.

Belliniana pura e al suo atteso debutto nel ruolo, Jessica Pratt è come immaginabile una Beatrice di gran temperamento, ferrea nella vitrea trasparenza con cui governa le tante e impervie colorature. In abiti da concerto ma dalla sapiente foggia teatrale (il primo turchino, il secondo nero e oro) a firma di Giuseppe Palella, vibra, s’impenna e interiorizza scolpendo a tutto tondo il personaggio fra ripiegamenti, cadenze e slanci acuminati, macinando note e acuti, giusto in un paio di casi non rifiniti o sospesi al meglio ma pur sempre miracolosi e spettacolari, tenendo testa alle sfide molteplici in pentagramma con tecnica di lusso e il pregio di delicatissimi sfumati. Nella cavatina con coro di damigelle “Ma la sola, ohimè! son io”, staccata dopo il bel si naturale a chiusura di scena, presenta con articolata espansione il suo animo dolce e dolente toccando corde lunari che tanto richiamano le tinte di “Casta diva”, per poi magnificamente dribblare con bravura funambolica tra gli acuti della cabaletta “Ah! la pena in lor piombò”, meritatamente coronata da entusiastici consensi. L’apice mirabile è come prevedibile raggiunto nella grande aria finale (Deh! Se un’urna è a me concessa), con girandola di peripezie nell’Allegro moderato (Ah! la morte a cui m’appresso) gestite ad arte fra gli estremi della sua estensione.
Afflato antico e un bel colore lirico di grazia, seppur con qualche eccessiva apertura di suono, sfoggia infine l’esperto Matthew Polenzani, Orombello ritagliato fra l’eroica vocazione e affetti di una viva seppur sempre composta passione pronta al sacrificio, così come scolpito sia in assolo che in assieme. Buone anche le prove dei ruoli minori assegnati a Li Danyang (Anichino) e a Sun Tianxuefei (Rizzardo), rispettivamente ex e attuale allievo dell’Accademia di Canto Lirico del Teatro San Carlo.
In chiusura, lunghi applausi per tutti e un fascio di rose color rubino per la diva Pratt.

Teatro San Carlo – Stagione 2022/23
BEATRICE DI TENDA
Tragedia lirica in due atti
Libretto di Felice Romani
Musica di Vincenzo Bellini

Filippo Andrzej Filonczyk
Beatrice Jessica Pratt
Agnese Chiara Polese*
Orombello Matthew Polenzani
Anichino Li Danyang *
Rizzardo Sun Tianxuefei *

*allievi Accademia di Canto Lirico del Teatro di San Carlo

Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo
Direttore Giacomo Sagripanti
Maestro aggiunto del Coro Vincenzo Caruso

Produzione del Teatro di San Carlo eseguita in forma di Concerto
Napoli, 23 settembre 2023

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