Squilli, brividi, guizzi e tremoli fra clangori guerreschi e macchinazioni delittuose, vaticini di streghe, strette sardoniche e ombre sinistre, il mesto dolore di un popolo, i meandri peggiori, consapevoli o inconsci che siano, dell’umana psiche. Impresa difficile ma non impossibile scolpire in mera forma di concerto le immagini sonore nette e precise di un mondo così articolato e complesso qual è quello del Macbeth di Giuseppe Verdi, strettamente aderente alla fonte tragica di Shakespeare entro il filtro librettistico di Piave con revisione del Maffei, laddove si scelga – al di là dei motivi – un’esecuzione destinata a narrare e a proiettare il tutto soltanto tra voci e strumenti, senza avvalersi del comunque fondamentale supporto scenico. È quel che accade in virtù di una direzione dal podio efficace come poche per l’ultimo titolo lirico proposto (dopo un quarto di secolo) dal Teatro San Carlo in trasferta al Politeama causa ristrutturazione e restauro. Ultimo perché, dal mese di aprile, si rientra finalmente nella sala ridisegnata dal Niccolini con un capitolo cameristico affidato alle risorse interne della Fondazione, quindi la sera del 6 si ospita di nuovo il soprano Pretty Yende con il pianista Michele D’Elia per poi puntare, come promesso, sull’allestimento del Wagner (Die Walküre, dal 16) capitanato da Kaufmann.
La direzione per il Macbeth, dunque, è di gran vaglia, affidata com’è al notevolissimo per polso, intelligenza analitica e sapienza musicale Marco Armiliato. Direzione sulla quale è andato inoltre a finire il peso di un cast non perfettamente in forma né bilanciato, vuoi per motivi di stile, vuoi per problemi di salute di alcuni dei protagonisti in gioco stando alla sostituzione fin dalle prove della prevista Sondra Radvanovsky (soprano di robusta tempra drammatica, mai arrivata a Napoli per un’improvvisa indisposizione, assente sulla carta per le prime due date) con la pur preparatissima ma lirico leggero Daniela Schillaci, più l’asso per il ruolo del titolo Luca Salsi che ha dovuto, da par suo, tener testa e al meglio a una fastidiosa bronchite, evidente sin da un’iniziale sporcatura del timbro schiarita da un relativo colpo di tosse e a seguire confermata dalla voce fuori campo che, a ripresa di spettacolo dopo l’intervallo, a nome della Fondazione è andata a ringraziare la decisione del celebre baritono di voler portare comunque a termine la sua parte.
Punto centrale e di forza dell’esecuzione resta, dunque, il governo della partitura che il maestro Marco Armiliato ben imprime a partire dal Preludio scolpito con mirata divaricazione fra il tema sul ghigno stridulo delle streghe tratto dall’incantesimo dell’atto III (Tre volte miagola la gatta in fregola) e gli affondi dalla scena del sonnambulismo grazie anche alla plasticità di trillo della terna dei fiati e alla sollecita risposta degli archi dell’Orchestra del Teatro San Carlo guidati dalla spalla aggiunta Daniela Cammarano. Un’attenzione per la teatralità del dettaglio musicale, per i tempi sempre esatti e per la forza di tratto a sostegno o a cornice delle diverse voci andata a garantire forma e significato a ogni tassello drammatico in coerenza con l’intero impalcato. Nel suo gesto, tra l’altro, c’è molto di più di quel che arriva talvolta fra potenziale in campo (la banda interna è piuttosto spenta come la definizione di fiammata richiesta sia agli strumenti che al Coro non sempre c’è) cui si aggiunge l’acustica del caso, ma le strette e gli affondi in agogica ci sono tutti, così come gli staccati leggeri, le tinte fosche del soprannaturale (ottimo il tributo di viole, violoncelli e contrabbassi), la spigolosità delle strutture irregolari, i fremiti, i contrasti, gli scoppi brutali.
Il Coro, preparato con mano esperta da José Luis Basso, si impegna parimenti al meglio e raggiunge il momento più alto nell’intensità del canto in coda a voci miste “Patria oppressa”.
Per quanto per i citati motivi di salute non proprio al top delle sue riconosciute qualità canore, Luca Salsi ritaglia con potenza il ruolo del titolo facendo leva con emissione scultorea sia sul gesto che sul peso degli accenti e della parola scenica, sull’ampiezza dei fiati, sull’effetto degli studiati pianissimi, sulla robusta tempra di un canto che spalanca abissi e fiammeggia sul palco tanto a solo che in assieme. Per la recita del 12, da locandina aggiornata e a conferma del suo disagio alla prima, al suo posto canterà il non previsto George Gagnidze.
Al fianco del Macbeth di roccia assicurato da Salsi c’è intanto il soprano Daniela Schillaci che, pur molto applaudita alla prima e pur avendo eseguito ogni nota prescritta in partitura con tutte le dinamiche possibili, spesso cercando sostanza nei centri e al grave, per sua natura timbrica leggera e corda da “soubrette”, Lady non è e dubitiamo fortemente che lo sarà mai. Nell’occasione, impossibile non apprezzarne l’estremo impegno tecnico fra dizione e pentagramma nel gran cimento di una delle parti più difficili e scabrose proprio per la necessità di una voce che non deve essere dolce né tantomeno bella, dai salti impervi e dalle linee frastagliate, al confine con il demoniaco. La Lady della Schillaci, non riuscendo a tradire il proprio, congenito smalto luminoso e brillante, appare di conseguenza costantemente sotto sforzo, didascalica nei portamenti come nella quota espressiva e fonica del declamato (il suo “Follie! Follie!” ricorda più Violetta), finendo con lo strizzare linee e volate, svuotando i suoni smorzati in chiusa (compreso il temibile re bemolle sovracuto nel legato a sigillo del suo sonnambulismo, al rientro fra le quinte). E finisce con l’alleggerire luoghi fondamentali, dalla cavatina (Vieni! T’affretta!) staccata incerta dopo il buon parlante d’esordio all’aria dell’atto II (La luce langue), dal brindisi troppo scattante (Si colmi il calice) all’apice drammatico del sonnambulismo.
A offrire un Banco di rara nobiltà e tempra è invece il basso Alexander Vinogradov. Il suo arioso (Oh, qual orrenda notte) è ampio, dolente e intenso, omogeneo nelle zone di passaggio, ben poggiato e calibrato sulla parola come sul fiato. Non meno blasonato e fermo è lo stile sfoderato dal Macduff del tenore Giulio Pelligra. Lo slancio giovanile e il suono sono da belcantista puro e così ritaglia, a parte gli interventi svettanti in concertato, la sua unica, celebre aria “Ah, la paterna mano”, dalla sensibilità tenera e provata.
Per la forza verdiana e la precisione dei non facili acuti un’attenzione speciale merita, fra i ruoli minori, la giovane Chiara Polese (Dama di Lady Macbeth), soprano e allieva dell’Accademia lirica della Fondazione. Apprezzabili infine le prove di Francesco Castoro (Malcolm) e Luciano Leoni (Medico), di Takaki Kurihara (altro interessante talento dell’Accademia sancarliana, nella piccola parte del Sicario) e Antonio De Lisio (Araldo) mentre, dal Coro, si citano Giuseppe Todisco (Domestico di Macbeth), Giacomo Mercaldo (Prima apparizione), Valeria Attianese (Seconda Apparizione) e la brava Maria Antonella Navarra (Terza Apparizione).
Teatro San Carlo – Stagione 2022/23
MACBETH
Melodramma in quattro atti
Libretto di Francesco Maria Piave
Musica di Giuseppe Verdi
Macbeth Luca Salsi
Banco Alexander Vinogradov
Lady Macbeth Daniela Schillaci
Dama di Lady Macbeth Chiara Polese
Macduff Giulio Pelligra
Malcolm Francesco Castoro
Il medico Luciano Leoni
Domestico di Macbeth Giuseppe Todisco
Sicario Takaki Kurihara
Araldo Antonio De Lisio
Prima Apparizione Giacomo Mercaldo
Seconda Apparizione Valeria Attianese
Terza Apparizione Maria Antonella Navarra
Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo
Direttore Marco Armiliato
Maestro del coro José Luis Basso
Napoli, Teatro Politeama, 9 marzo 2023
Esecuzione in forma di concerto