Dell’Ottocento romantico, nella Damnation de Faust di Hector Berlioz, c’è praticamente tutto: natura, cielo e terra, sogno e illusione, goliardìa popolare, un Amen fugato, una marcia ungherese, romanze, serenate e una canzone gotica. E naturalmente, come in un Sabba da Symphonie fantastique, angeli e demoni, silfidi, gnomi e folletti, amore, dannazione e una morte che divarica fra paradiso e inferno le rispettive sorti dei goethiani Marguerite e Faust.
Ed è su tale spettro tematico, lavorando esclusivamente sul fronte sonoro fra rêveries e vertigini in odore di zolfo sulla sostanza sonora dell’intero mondo poetico-drammatico in tableaux e in efficace sperimentazione di genere, che si è giocata stavolta la partita sulle grandi voci (più Orchestra e Coro di casa) puntata in stagione dal Teatro San Carlo di Napoli, garantendo a partire dal podio un rigore d’antica scuola ai pentagrammi di una delle partiture più visionarie intorno al mito della seduzione mefistofelica. Ancora in trasferta al Politeama per lavori in corso e sempre, purtroppo, con il rammarico del luogo a scarto con l’alto prestigio dei solisti chiamati a darvi forma in proscenio.
Nell’occasione c’è da sottolineare intanto che il Berlioz della leggenda drammatica per soli, coro e orchestra nata nel cuore del diciannovesimo secolo non come vera e propria opera teatrale quanto, piuttosto, come “oratorio fantastico” (Fétis) o “opéra de concert” (Ballif), tornava a Napoli nella sua primigenia forma oratoriale profana e da concerto, dunque in soluzione ovvia e neppure da sottolineare in locandina, dopo quattordici anni dalla realizzazione scenica confezionata “ad hoc” per il Lirico sotto altra sovrintendenza a firma di Jean Kalman (per regia, scene e luci) e dello stilista Emanuel Ungaro per i costumi nel solco della versione “visiva” varata a partire dal 1893 per iniziativa di Raoul Gunsbourg, all’epoca direttore del Teatro di Montecarlo. Nel caso del precedente sancarliano, a dirigere gli organici della Fondazione, c’era George Pehlivanian accanto agli interpreti José Bros, Sonia Ganassi, Erwin Schrott e Maurizio Lo Piccolo.
Stavolta sul podio è invece salito il maestro israeliano settantasettenne Pinchas Steinberg, più volte in passato ospite al Teatro San Carlo sia per la lirica che per la sinfonica mentre, all’interno di un bel poker di voci, svettava il debutto partenopeo del super basso Ildar Abdrazakov, Premio Abbiati per il 2018 e qui chiamato a dar vita al potente ruolo di Méphistophélès.
A onor del vero, ferma restando la sollecitudine alla precisione della bacchetta sia da parte dell’Orchestra che del Coro al solito preparato con dovizia nelle diverse connotazioni di stile oltre che nel taglio metrico-ritmico dal proprio mentore purtroppo in uscita José Luis Basso, è stata la direzione di Pinchas Steinberg a restituire in misura lucidissima quanto esatta la linea di costruzione complessiva dell’opera 24 di Berlioz caratterizzandone, innanzitutto, le diverse specificità dei tasselli in termini di tempo e calibro formale, mai caricandone gli effetti o lo smalto francese per mirare, piuttosto, alla perfezione asburgica degli equilibri timbrici interni e sulle curvature dinamiche, sui contrasti fra un quadro e l’altro, sulla lucidità analitica della narrazione. Esemplare, a tal merito, la “Marche hongroise” sul tema della popolare Marcia Rákóczy pure utilizzata dal grande Liszt, dedicatario illustre della Damnation. In special modo di rilievo l’attenzione sugli strumentini e il lavoro di cesello operato sulla famiglia degli archi efficacemente guidata dal violino di spalla Gabriele Pieranunzi, da Salvatore Lombardo alla testa dei secondi, da Leonardo Li Vecchi apprezzabile nel primo piano dato alla sezione delle viole e da Gianni Stocco per i contrabbassi. Un plauso a parte spetta quindi all’oboista ospite madrilena Marta Hernandez Santos per l’intenso dialogo intessuto in partitura su corno inglese, ma nella dolcezza della fibra sonora con tempra da oboe d’amore, durante la Romanza di Marguerite in apertura della quarta e ultima parte.
Analogamente il Coro, al meglio negli interventi in formazione maschile e mista, ha contribuito e non poco alla scansione delle molteplici situazioni drammatiche ritagliate con plastica efficacia passando dalla vivace ronda dei contadini alla velatura sacra del canto di Pasqua, dal chiasso beffardo dei bevitori nella cantina di Auerbach a Lipsia, con tanto di serrato fugato in parodia sull’Amen per il topo avvelenato e defunto cantato dallo studente Brander, al vigore degli interventi marziali, alle ombre dei demoni, al chiarore degli spiriti celesti.
Di pari e notevolissimo pregio, per quanto ciascuna di opposto segno nella propria specificità, le prove superbe dei solisti destinati a dar voce ed espressività gestuale entro i limiti della congenita natura strutturale da concerto. Il tenore John Osborn, alla luce di una maturazione canora che sembra meravigliosamente sposare l’eleganza di stile, la tenerezza timbrica e la duttilità di frase in quota lyrique del repertorio francese, tratteggia in apertura un Faust dolcemente dolente dinanzi alla solitaria contemplazione stürmeriana delle ridenti campagne d’Ungheria. Cedendo a occhi chiusi facilmente alle lusinghe incantatorie di Mefistofele, s’incammina con ardore crescente ma sempre terso e nobile lungo i sentieri del sogno e dell’amore, intonando con intensità commossa e poeticissima l’aria che dà inizio alla terza parte e dunque all’incontro al crepuscolo con la donna idealizzata, con puntature all’acuto chiarissime e morbide. Finirà in caduta libera verso l’abisso sfoderando solidità e cura timbrica lungo la corsa dell’intera sua estensione.
Di seduzione massima quanto di vigoria potente è quindi il magnifico Méphistophélès di Ildar Abdrazakov, credibile nello sguardo, nella dizione come nel gesto, superbo nella bellezza ampia e sonora della sua voce scolpita e bronzea. La sua statura demoniaca è immensa eppure mai forzata o fuori misura in virtù di un’emissione perfetta tanto nelle impennate di suono quanto nelle sfumature avvolgenti, misteriose e profonde. Di fuoco è lo scatto ironico nella sua Canzone della pulce, ipnotica e cullante è l’Aria con cui irretisce Faust spingendolo nel voluttuoso sonno affiancandosi poi al Coro. E vincente è la sua Corsa all’Abisso, chiusa in trionfo satanico e in coro nel Pandemonio.
Grande padronanza tecnica ed espressiva rivela infine al loro fianco il mezzosoprano Daniela Barcellona, Marguerite di viva e piena tempra romantica nella Canzone gotica del Re di Thule come nel declinare con esperta sicurezza le sfaccettature molteplici del suo canto entro lo scavo di un amore estatico, poi folle e perduto, stretto fra il delitto e la redenzione nell’apoteosi finale.
Completavano il cast il pregnante Brander del basso Louis Morvan e Laura Ulloa per la voce celeste.
Teatro San Carlo – Stagione 2022/23
LA DAMNATION DE FAUST
Leggenda drammatica in quattro parti
Libretto di Hector Berlioz e Almire Gandonnière
Musica di Hector Berlioz
Marguerite Daniela Barcellona
Faust John Osborn
Méphistophélès Ildar Abdrazakov
Brander Louis Morvan
Una voix céleste Laura Ulloa
Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo
Direttore Pinchas Steinberg
Maestro del coro José Luis Basso
Napoli, Teatro Politeama, 7 febbraio 2023