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Monte-Carlo, Salle Garnier – Il barbiere di Siviglia (con Cecilia Bartoli)

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È incredibile a dirsi, ma sono passati ben trentaquattro anni dal Barbiere di Siviglia di Rossini che vide l’allora giovane e non ancora nota Cecilia Bartoli debuttare sulle scene della Salle Garnier per la stagione dell’Opéra di Monte-Carlo. Oggi la diva ritorna a interpretare lo stesso ruolo, quello di Rosina, e non fa rimpiangere nulla degli anni degli esordi. Già allora (perché ero presente a questo spettacolo monegasco) la sua visione del personaggio fu fresca, vispa e scaltra, immersa in un allestimento che aveva tutte le caratteristiche dell’impianto visivo tradizionale, con le antiche scene oleografiche di Nicola Benois e la regia di Luigi Alva.

Da allora molte cose sono per lei cambiate, perché ha acquisito un’importanza, ormai da ritenersi storica, riconosciutale come interprete del repertorio barocco, ma anche quale portatrice di nuovi canoni vocali che si riverberano sul piano di uno stile esecutivo, applicato anche a Rossini, tutto suo. Lo si può imitare (molti hanno provato a farlo), ma la cifra di ogni sua interpretazione, per quanto non sempre condivisibile e compresa da tutti, resta certo distintiva. Ed ecco che la sua Rosina, per quanto inserita in un contesto registico “particolare”, del quale riferiremo dopo, è un misto di introspezione sonora e incisività espressiva, tutta in punta di penna. Lo è per un fraseggio miracolosamente curato, capace di dare senso animato anche ai respiri, riuscendo a far sì che i suoni si plasmino sul senso della frase, della parola, dell’accento e di un canto che è tutto proiettato verso la sapiente analisi del gesto in funzione dell’interpretazione più che sul valore del puro canto. Ed è forse per questo che, dopo una guardinga ma spiritosissima cavatina, Cecilia Bartoli regala una scena della lezione dove ogni nota è al servizio appunto del gesto, anche quando schegge di acrobatismo vocale vengono messe in relazione con la verità del momento scenico. Dinanzi a una musicalità tanto sopraffina si dimentica tutto e viene fuori l’artista vera, quella che non ha perso neanche un’oncia di quella capacità di divertirsi sulla scena, concentrata sul personaggio e sulla sua verità, rendendolo irresistibilmente ardente e malizioso, senza perderne per un attimo il controllo; in sintesi, non tanto e solo un prodigio di longevità vocale, ma anche di amore e gioia di vivere il palcoscenico che la rende, oggi come agli inizi, tanto singolare, forse unica.

Al suo fianco, questo Barbiere monegasco, schiera un veterano come Alessandro Corbelli, pure lui artista consapevole della scena e di ciò che canta, ma vocalmente alquanto affaticato nei sillabati dell’aria di Don Bartolo. Anche gli altri cantanti sono di consumata esperienza rossiniana, come Edgardo Rocha, un Conte d’Almaviva nell’insieme pregevole seppure un po’ monocorde e poco propenso al canto sfumato (e non depone a suo favore il fatto che la ripresa della sua serenata, “l’amoroso sincero Lindoro”, venga deturpata parodisticamente con una schitarrata flamencata), oltre che puntuale ma certo non trascendentale nel canto fiorito, con alcune emissioni che, almeno in questa occasione, sono sembrate un poco sfuocate. Si ritrova, invece, in Ildar Abdrazakov il basso di rango, in grado di donare prezioso rilievo vocale alla parte di Don Basilio, con una “Calunnia” cantata benissimo, anche se il personaggio (non per colpa sua) resta congelato in una visione registica che lo rende un inquietante presenza demoniaca malaugurante: una sorta di sintesi diabolica di tanti personaggi del teatro musicale, come Mefistofele, o del cinema, come Nosferatu. Anche Nicola Alaimo pare schiacciato da uno spettacolo che limita il personaggio di Figaro distogliendolo dalla giusta immagine di demiurgo della vicenda, scippato in questo da ragioni che vanno al di là della sua indubbia bravura in un canto che appare sonoro, solido e ben proiettato, ma senza quell’argento vivo che dovrebbe caratterizzarlo e che, all’opposto, gli limita il brillio nel settore acuto. Il cast è completato dalla Berta alquanto soubrettistica della incisiva Rebeca Olvera, da José Coca Loza (Fiorello), Paolo Marchini (Ambrogio) e Przemyslav Baranek (Un ufficiale).

Altro valore aggiunto di questo Barbiere monegasco è la bacchetta di Gianluca Capuano. Alla testa dello splendido ensemble di strumenti storicamente informati de Les Musiciens du Prince-Monaco, regala una visione dell’opera ripensata sul versante delle dinamiche, ricercatissime e contrastate, di percussioni che si scatenano nell’accompagnare i recitativi con incedere martellante (vengono utilizzate anche le nacchere) o si insinuano nel ritmo indiavolato degli assiemi e del concertato che conclude il primo atto, non temendo di adottare improvvisi rallentando o accelerando, di usare il fortepiano intrecciato col suono dell’orchestra (il bravo Andrea Del Bianco) e di seguire un discorso musicale fantasioso e continuamente cangiante. Non è certo il primo direttore che tenta la via di “barocchizzare” il discorso strumentale puntando tutto sui contrasti più che sulla filigrana di un gioco sonoro sottile; eppure, fra tutti coloro che hanno tentato questa carta interpretativa, più al passo con le nuove tendenze interpretative del momento, la bacchetta di Capuano è certo la più innovativa e rivoluzionaria, al punto da donare al meccanicistico universo sonoro rossiniano una valenza di irresistibile carica surreale. Si prende anche qualche perdonabile libertà musicale, soprattutto quando la seconda parte del rondò del Conte viene intonata a due con Rosina, con le voci che si scambiano le agilità.

Ci si sarebbe concentrati ancor più sulla musica e sul valore di questa esecuzione se lo spettacolo, proveniente dal Festival di Salisburgo, firmato da Rolando Villazón, non avesse distratto l’ascolto perdendosi in un totale nonsense sinergico, privo di senso compiuto. L’impianto scenico di Harald B. Thor, con richiami all’art déco, e i costumi di Brigitte Reiffenstuel, che rasentano a tratti (come alla fine del primo atto) la carnevalata farsesca, trasformano questo Barbiere in uno spettacolo che sembra riportare le lancette del tempo indietro di cinquant’anni, prima che il movimento di rinascita rossiniana agisse anche su capolavori come questo, mai usciti dal repertorio, ma ripuliti nella prassi esecutiva, liberati da gag e caccole sceniche. Lo spettacolo inizia come una sorta di omaggio al cinema muto, con proiezione di spezzoni di film in bianco e nero in cui la diva Bartoli è ritratta in tutti i modi, come piratessa, suora, Giovanna d’Arco o Cleopatra. A guidare la cinepresa di questo set cinematografico, dal quale sembra nascere il tutto, è un personaggio aggiunto, come mimo: un tuttofare chiamato Arnoldo che prende forma grazie alla bravura di Arturo Brachetti, che recita (invero magnificamente) interfacciandosi con tutti i personaggi dall’inizio alla fine dell’opera, come presenza destinata a patire le conseguenze dei pasticci creati dagli altri. Brachetti è anche trasformista di straordinaria fama e bravura. Si poteva prevedere che la sua presenza sulla scena avesse maggior sviluppi in tal senso, verso l’arte in cui questo celebre artista eccelle, facendolo esibire in uno dei tanti numeri a sorpresa per cui è famoso. Niente o quasi di tutto questo. Lo spettacolo si perde piuttosto, quasi da subito, nella sovrabbondanza visiva più confusa e disordinata, con personaggi annullati in un moto perpetuo che non ha né capo né coda e approda a eccessi che mostrano sulla scena di tutto e di più, soprattutto nel finale primo, quando sulla scena si materializza anche il “cervello poverello”, a cui si fa riferimento nel concertato, in veste di Frankenstein. Descrivere tutto quello che avviene e si vede sul palcoscenico richiederebbe pagine intere, ma sarebbe inutile e noioso, anche perché lo spettacolo non merita tanta attenzione; appare sbagliato, senza prova d’appello futuro, e speriamo, proprio per questo, venga presto archiviato. Al pubblico però è piaciuto e questo importa; come resta impresso nella memoria il fatto che il primo cartellone firmato da Cecilia Bartoli, in veste di nuova guida del teatro, si chiuda con un bilancio più che positivo.

Opéra de Monte-Carlo – Stagione 2023
IL BARBIERE DI SIVIGLIA
Melodramma buffo in due atti
Libretto di Cesare Sterbini
Musica di Gioachino Rossini

Il Conte d’Almaviva Edgardo Rocha
Don Bartolo Alessandro Corbelli
Rosina Cecilia Bartoli
Figaro Nicola Alaimo
Don Basilio Ildar Abdrazakov
Berta Rebeca Olvera
Fiorello José Coca Loza
Ambrogio Paolo Marchini
Un ufficiale Przemyslaw Baranek
Con la partecipazione straordinaria di
Arturo Brachetti nella parte di Arnoldo

Les Musiciens du Prince – Monaco
Choeur de l’Opéra de Monte-Carlo
Direttore Gianluca Capuano
Direttore del coro Stefano Visconti

Regia Rolando Villazón
Scene Harald B. Thor
Costumi Brigitte Reiffenstuel
Luci Stefan Bolliger
Coreografia Ramses Sigl
Video Rocafilm / Roland Horvath
Maestro di canto, assistente alla direzione musicale e continuo
Andrea Del Bianco
Assistente alla messa in scena Bettina Geyer
Assistente ai costumi Thomas Bruner
Assistente di Arturo Brachetti Mark Johnson Panganiban

Allestimento del Festival di Salisburgo
Monte-Carlo, Sal18 marzo 2023

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