Ha cominciato a 14 anni con un musical in una chiesa, poi ha iniziato a cercare l’origine delle cose: dentro e fuori di sé. Come strumento della ricerca ha scelto la danza, quella accademica. È un americano di New York che ha scelto l’Europa, dove il suo nome è specialmente legato al ventennio della direzione del Frakfurter Ballett. Da noi l’ha scoperto l’Aterballetto di Reggio Emilia. William Forsythe, ballerino e coreografo, diventa presto una delle voci più autorevoli della scena internazionale. Negli stessi anni nei quali altri illustri artisti, da Maguy Marin a Pina Bausch allo stesso Béjart, cercano, magari sé stessi, e denunciano, lui tace e indaga l’astrazione nel mutamento continuo della geometria classica dilatata all’infinito dai rivoli del suo pensiero.
Rigorosamente sposato all’estetica accademica, se ne distacca ogni giorno di più per diventare ogni volta un nuovo racconto. Non ama le retrospettive, né le parole, né i ritorni. Cammina Billy the Big, sempre avanti e sempre diverso. A noi lascia quello che abbiamo capito. La partenza sono l’organizzazione coreografica di Balanchine e il concetto di suddivisione spaziale di Rudolf von Laban. La sua prima coreografia, nel 1976, poggia su un Lied di Mahler. Tuttavia già una quindicina di anni dopo dichiara: “L’architettura della danza è ormai diventata una prigione, lentamente e dall’interno bisogna corrodere questa prigione e smontare le architetture scontate. Ma nessuno deve accorgersi di questo processo”. Nel 1999, nel cd-rom pedagogico Improvisation Thecnologies, codifica i concetti spaziali di estrusione, inscrizione, rarefazione: tutti approcci creativi di un movimento destinato a portare la danza nel XXI secolo.
La sua poetica abbraccia vecchio e nuovo come categorie indispensabili e complementari. In tale ottica anche le “punte” che il romanticismo aveva inventato come elemento di elevazione smaterializzante diventano tagliente strumento di velocità e aggressione. I movimenti interrotti, i titoli senza senso, la stravaganza degli accessori scenici, le luci che dilaniano, la destrutturazione che promuove azioni contemporanee differenziate sono altrettanti volti di verità senza parole. Suo partner musicale è a lungo Thom Willems. Molti i titoli, uno più stravagante e inintelligibile dell’altro. Lui stesso affermava di entrare in teatro senza saper cosa avrebbe visto e di uscirne senza aver capito. Un vezzo. Quello che conta è l’istinto del momento, pur sempre ferreo, rigorosissimo, e apparentemente senza perché. Per noi Forsythe è sempre stato questa astrazione esistenziale, un nulla che forse era la verità rispetto alle impostazioni intellettuali di coloro che gli creavano a fianco. Appunto la denuncia sociale o la condizione femminile, o le costruzioni psicoanalitiche.
Lo ritroviamo in Serata Forsythe – Blake Works V al Teatro alla Scala, dove era già stato varie volte, dopo un po’ di tempo. Con lui una nuova musa (prima era il compositore Thom Willems), il giovane inglese James Blake, figlio del pop, abbracciato a rock, canzoni, differenti tecniche compositive, cantautore e produttore poco più che trentenne. Per lui l’elettronico, il blues, lo sperimentale e specialmente l’UK garage, genere inglese sviluppatosi tra fine anni Ottanta e Novanta. Tutto chiaro? Del resto Forsythe non chiede che si capisca. Onestamente al prima ci eravamo abituati, adesso, almeno per ora, ci perdiamo. Ma il miracolo è che non avendo avuto la possibilità di seguire le prove, chiedere all’interessato o ai danzatori del Ballo scaligero cui sono destinati i tre titoli, Prologue, The Barre Project e BlakeWorks I, sempre su musiche ora quasi infantili e ora perentorie del nostro James, ci siamo trovati davanti a uno spettacolo magnifico e quasi conosciuto. Una danse d’école inavvertitamente tradita nella sua essenza poggiata su velocità, tenerezze, organizzazione perfetta. Protagonisti tutti i solisti e le prime parti della compagnia: sole, in coppia, assieme. Donne in punta. Nel contesto sfondo nero e costumi prima neri poi ottanio, una sbarra, una bella proiezione di mani lievi alle prese con pianoforti inesistenti. Nessun stupore per busti contorti, mani forzate, gambe improbabili, apparente inespressività. Davvero uno spettacolo splendido e privo di astrusità. E non a caso, che si sia riusciti a penetrare l’intenzione del coreografo oppure no, alla fine il teatro come sempre gremitissimo riserva a tutto e tutti ovazioni interminabili. Scala e Forsythe fanno pienamente centro.
Milano, 30 maggio 2023