Il 2023 operistico del Teatro alla Scala si apre nel nome del repertorio novecentesco e di Richard Strauss, autore fortunatamente spesso proposto nelle ultime stagioni del Piermarini (a quando, però, qualche titolo straussiano meno frequentato come, per esempio, Capriccio o Arabella?). Viene messo in scena il celebre atto unico del 1905 Salome, su libretto della scrittrice, poetessa e traduttrice tedesca Hedwig Lachmann dall’omonimo dramma teatrale di Oscar Wilde, scritto in francese nel 1891, durante un soggiorno parigino e, pochi anni dopo, pubblicato anche in traduzione inglese. “Fra le altre figlie vispissime della prolifica bambinaccia wildiana, poi, non possiamo ovviamente passare sotto silenzio la straordinaria opera di Richard Strauss che trasforma la principessina in un’Isotta postwagneriana […] fra vertiginosi vocalismi”: così la penna lucida e tagliente di Alberto Arbasino definì la composizione straussiana, un concentrato musicale della durata di circa cento minuti nel quale si intrecciano tra di loro erotismo, spiritualità, suicidi, baci necrofili, amore e morte.
Debutta al Teatro alla Scala Axel Kober, di casa a Bayreuth, dal 2009 direttore musicale della Deutsche Oper am Rhein, rinomato interprete del repertorio tedesco (Wagner in primis). Con tecnica ferrea, il maestro nativo di Kronach opta per una lettura compatta e granitica, salda e priva di sbavature, ottenendo dall’Orchestra del Teatro alla Scala un suono corposo, robusto e di consistenza marmorea. Una direzione solida, monolitica e d’acciaio, scevra di languori, trasparenze e sfumature delicate, pervasa da una sensualità essenziale e controllata, mai languida, pure nella “Tanz der sieben Schleier”, affrontata con piglio energico.
Per la prima volta su queste tavole canta Vida Miknevičiūtė, acclamata come Salome, negli ultimi anni, a Vienna, Helsinki, San Pietroburgo e Melbourne. Vero e proprio animale da palcoscenico, dalla notevole tempra drammatica, il soprano lituano esibisce una voce che corre facilmente nell’ampia sala teatrale, svettante e puntuta negli acuti fulminanti, ben appoggiata nei medi e nei gravi, screziata di seducenti venature metalliche. Con fisico aggraziato, fascinoso e dizione curata, l’artista si immedesima nel personaggio, non risparmiandosi per nulla e aderendo totalmente alla radicale lettura registica. Già noto al pubblico scaligero è il baritono tedesco Michael Volle che, nelle prossime stagioni, interpreterà Wotan nel nuovo Ring diretto da Christian Thielemann. Presenza scenica monumentale e ieratica, in possesso di una vocalità torrenziale e voluminosa, omogenea in tutte le gamme e di pasta scura, Volle è un Jochanaan tonante e austero, scavato nella pietra nel fraseggio, che scaglia le sue profezie e le sue maledizioni con vigoria e penetranza.
Ben calato nei panni di un Herodes nevrotico, irascibile e pavido è Wolfgang Ablinger-Sperrhacke, dallo strumento vocale tenorile duttile e di buon peso, dalla timbrica asprigna e mercuriale, vivace e arguto nel porgere la parola. Il soprano statunitense Linda Watson dipinge con credibilità una Herodias magnetica, disinibita, inumana e volutamente pacchiana, dalla voce espansa e autorevole, solenne nel portamento. Sugli scudi la prova del tenore tedesco Sebastian Kohlhepp, un Narraboth tormentato e borderline, distintosi per la vocalità squillante e morbida, dal metallo argentino e lucente; il mezzosoprano Lioba Braun è un Paggio di Herodias vocalmente centrato e vellutato. Efficace la folta schiera di comprimari, tra i quali citiamo, almeno, i due sonori Soldati dell’ucraino Alexander Milev e del tedesco Bastian Thomas Kohl, i musicali Jiří Rajniš e Sung-Hwan Damien Park come Nazareni, il luminoso Hyun-Seo Davide Park (Uno schiavo).
Lo spettacolo è quello, a firma dell’(ormai ex) enfant terrible Damiano Michieletto e del suo team, filmato dalle telecamere Rai senza pubblico in sala e trasmesso, in differita televisiva, nel febbraio 2021, da noi seguito in presenza e che, per l’occasione, già avevamo descritto più in dettaglio (qui il link); la regia mostra, però, alcune revisioni e differenze rispetto al 2021. Quella di Michieletto è una chiave di lettura simbolica, introspettiva e psicanalitica, quasi freudiana, giocata su contrasti netti e calata nella contemporaneità. Fondamentale è, nella sua interpretazione di quella che lui vede come una crudele tragedia familiare, la vicinanza tra la protagonista e Amleto: ambedue, infatti, sono orfani di padre, assassinato dallo zio e dalla madre, così da potersi unire in matrimonio. Sempre secondo Michieletto, sono riscontrabili parallelismi tra Salome ed Elektra, entrambe private della figura paterna e desiderose di vendetta e di riscatto. Durante la performance, si assiste a una marcata evoluzione del personaggio di Salome, da Lolita provocante e capricciosa, via via cosciente degli abusi subiti dallo zio-patrigno e dei suoi crimini, a creatura ribelle e ferina, che dissotterra il teschio del padre Erode Filippo, si toglie la parrucca nera a caschetto rimanendo quasi calva e, imbrattata di terra e sangue, bacia il cranio del padre. Di grande effetto il colpo di teatro finale, con la protagonista che, avanzando verso il fondo del palcoscenico per raggiungere il suo doppio-bambina, trova la morte nella cisterna del Battista, dove ai tempi era stato imprigionato anche Erode Filippo. Le scene laccate, neutre e atemporali di Paolo Fantin mostrano una stanza/mausoleo dalle pareti candide, sovrastata da un’opprimente sfera nera dalla superficie riflettente, una sorta di occhio dell’inconscio, simbolo della luna malefica e inquieta. Rigorosi e di foggia contemporanea i bei costumi di Carla Teti, con una menzione per i due indossati dalla protagonista (un elegante e sobrio abito verde-giallo e una sottoveste nera); vivide le luci di Alessandro Carletti, giocate su cromie accese di sapore espressionista; impattante e brutale la coreografia di Thomas Wilhelm, ripresa da Erika Rombaldoni, per l’attesa “Danza dei sette veli”, nella quale assistiamo agli stupri perpetrati in passato da Herodes nei confronti di Salome. Come spesso capita con gli spettacoli del regista veneziano e della sua squadra, sul palcoscenico, popolato di atletici e misteriosi angeli della morte dalle ali nere, e di elementi quali piume corvine e terra, si susseguono immagini esteticamente pregnanti (ad esempio Jochanaan e la tomba di Erode Filippo che sprofondano nella cisterna avvolti da un cerchio di fuoco) e altre a tratti crude e violente (il macabro monologo di Salome, sebbene l’iconografia della protagonista che, spogliatasi di tutto, rimane quasi priva di capelli, richiami alla memoria il finale di un altro allestimento di Michieletto, Alcina, proposta a Salisburgo nel 2019 e a Firenze lo scorso autunno).
Teatro esaurito e, al termine, fragoroso successo per tutti gli interpreti e per i responsabili della parte visiva, con nove minuti di festanti applausi e ovazioni soprattutto per Vida Miknevičiūtė, Axel Kober, Michael Volle, Linda Watson e Sebastian Kohlhepp.
Teatro alla Scala – Stagione d’Opera e Balletto 2022/23
SALOME
Dramma in un atto dall’omonimo poema di Oscar Wilde
nella traduzione tedesca di Hedwig Lachmann
Musica di Richard Strauss
Herodes Wolfgang Ablinger-Sperrhacke
Herodias Linda Watson
Salome Vida Miknevičiūtė
Jochanaan Michael Volle
Narraboth Sebastian Kohlhepp
Ein Page der Herodias Lioba Braun
Fünf Juden Matthäus Schmidlechner, Matthias Stier,
Patrick Vogel, Patrik Reiter, Horst Lamnek
Zwei Nazarener Jiří Rajniš, Sung-Hwan Damien Park
Zwei Soldaten Alexander Milev, Bastian Thomas Kohl
Ein Kappadozier Matías Moncada
Ein Sklave Hyun-Seo Davide Park
Orchestra del Teatro alla Scala
Direttore Axel Kober
Regia Damiano Michieletto
Scene Paolo Fantin
Costumi Carla Teti
Luci Alessandro Carletti
Coreografia Thomas Wilhelm ripresa da Erika Rombaldoni
Produzione Teatro alla Scala
Milano, 14 gennaio 2023