Atto I. Serenità di un giardino, danza di fanciulle, sogni e spensieratezza di fiori appena sbocciati. Presentimenti della protagonista Tat’jana, l’eroina dal romanzo in versi di Puškin Evgenij Onegin dal quale il balletto Onegin di John Cranko (al Teatro alla Scala fino al 25 novembre) è tratto.
Atto II. Una camera da letto, uno specchio incantato, una fanciulla innamorata. Quindi una landa desolata, un duello, il lutto che segnerà l’intero balletto.
Atto III. Anche nella casa nobiliare di San Pietroburgo, sala da ballo con colonne e imponente monumento marmoreo di sapore canoviano collocato al centro, si balla, mentre il dramma si consuma nella stanza di Tat’jana ormai sposa.
Le tre sezioni scorrono via veloci, intrise di poesia ed emozioni, e raccontate dalla presenza dell’ospite che appare nero, lento, supponente e solenne durante la festa di casa Larin.
Onegin è la più appassionata coreografia di John Cranko, artista di area britannica che, scomparso prematuramente, è riuscito a lasciare un’impronta indelebile nella coreografia tedesca (ha diretto Stuttgarter e Münchner) e nel repertorio del mondo. Le sue due anime disegnano affreschi cult: Romeo e Giulietta nato per la Scala e per la Fracci nel ’58, Onegin destinato a Stoccarda e alla sua musa Marcia Haydée nel’65, La bisbetica domata, ancora Stoccarda e Marcia Haydée, nel ’69.
Fermo restando Romeo e Giulietta il titolo princeps e più nostro per assere stato ripreso dalla stessa Scala infinite volte, Bisbetica e Onegin (visto, l’ultimo, a Nervi nel ’76 ed entrato nel repertorio scaligero nel ’93 con Carla Fracci) costituiscono le due facce della stessa medaglia. Antitetici e complementari, i lavori indicano le due anime di Cranko. Umorismo, ironia, irresistibile comicità il primo da Shakespeare, e inquietudine, dramma, iter psicologico e introspettivo il secondo da Puškin. Riconoscibile in entrambi la mano dell’autore connotato dalla purezza del lessico accademico, dalla cura del particolare, dal senso del grottesco, dall’originalità dell’invenzione figurativa sempre declinata secondo la più rigorosa codificazione della danse d’école.
Per nulla imparentata alla raffinata, drammatica e anteriore opera omonima di Čaikovskij, la partitura del balletto è un opinabile collage di brani dello stesso Čaikovskij cuciti assieme da Kurt-Heinz Stolze. Lo stesso degli arrangiamenti da Scarlatti della Bisbetica. Opera e balletto condividono invece la fonte letteraria, operazione che contemporanei e intellettuali successivi ritenevano impossibile. Uomo di cultura e di gusto, Cranko riesce a stupire isolando varie componenti stilistiche del poema. Romanticismo e realismo, ode ed elegia, sogno e realtà. E riprendendo molte tematiche care non solo a Puškin ma all’intera narrativa russa del periodo. La denuncia sociale è sottolineata dai tratti disdicevoli del protagonista Onegin: dandy pietroburghese malato di spleen che arriva diverso e inaspettato alla festa Larin. Mentre la celebrazione della donna russa (consegnata a Dostoevskij proprio dall’archetipo di Tat’jana) è la figura della protagonista femminile. Il Leitmotiv dell’intera creazione è la festa, la cornice di danze di società che non riesce a cancellare il tedio esistenziale e il dramma dei singoli. La passione tradita di Tat’jana, l’ipocondria di Onegin, l’onore offeso di Lenskij, lo strazio di Olga…. Cranko consegna alle situazioni reali le espressioni più collaudate dell’accademia (i due pas de deux Tat’jana-Onegin che aprono il primo atto e chiudono il terzo). Mentre sogni e presentimenti, romantica eredità byroniana, sono affidati alle due strazianti lettere che aprono e chiudono la vicenda: quella palpitante di Tat’iana e l’altra, disperata, di Onegin. Nel mezzo vaneggianti assoli incluse le variazioni di Onegin splendidamente eseguite da Roberto Bolle. Al personaggio di Olga è consegnato un amore fermo e incantato, al suo promesso, a Lenskij il lirismo, a Gremin marito di Tat’jana le certezze un po’ottuse delle classi nobiliari, a Tat’jana un ruolo psicologicamente mutevole e complesso da rendere, dai rossori della fanciulla alla passione della donna e alla stoica rinuncia della sposa. Un ruolo per grandi interpreti che non a caso rende possibile la programmazione di Onegin con molta parsimonia. Tra le tante non possiamo non pensare alla tragediénne Carla Fracci. Ma anche, quando nel ’94 ne riprese il ruolo alla Scala, alla singolare modernità di Alessandra Ferri.
Oggi la Scala alterna vari cast affidando la prima alla stella Nicoletta Manni e all’étoile dei due mondi Roberto Bolle. Nicoletta è il prototipo della ballerina romantica e per lei il ruolo di Tat’jana è certo una gran prova. Dunque dieci e lode al traguardo di Nicoletta e alla sua inimitabile evanescenza. Ci stupisce invece Bolle, il danzatore che sappiamo splendido a tutto campo ma non in certi ruoli. Roberto tuttavia riesce a impadronirsi di spleen, noia, supponenza e rifiuto sposandolo psicologicamente al dramma del rifiuto. Bravo Roberto. Eccellente il lirismo della Ol’ga di Martina Arduino, la capacità introspettiva del Lenskij di Nicola Del Freo, la nobiltà del Gremin di Gabriele Corrado.
Quanto alla musica, sciagurato collage di Stolze su varie musiche, specie pianistiche, di Čaikovskij e nessun cenno all’antecedente partitura dell’opera omonima, il direttore australiano Simon Hewett se la cava come può. Un po’ omogeneo, un po’ vibrante e forse impossibilitato a fare di più dal punto di vista drammatico. Tuttavia l’immedesimazione dei ballerini, la bellezza delle scene (Pierluigi Samaritani/ Roberta Guidi Di Bagno) e l’avvincente snodarsi della vicenda, meritano ovazioni da stadio. Come del resto sempre nella Scala degli ultimi tempi.