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Milano, Teatro alla Scala – Le Corsaire

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Le Corsaire approda per la prima volta alla Scala. Prima volta? No, perché il primo Corsaro della danza, ispirato a Byron, arriva in teatro nel 1826 con coreografia e libretto di Giovanni Galzerani. Più che un balletto, è una pantomima figlia della riforma gluckiana che investe tutte le arti, a iniziare dal Prometeo di Viganò-Beethoven. Ma la vicenda è la stessa e i personaggi pure. La forma del balletto debutta invece all’Opéra di Parigi nel 1856 per diventare poi un gioiello imprescindibile della Russia degli zar, due anni più tardi. Ma oggi sono passati duecento anni, come nelle fiabe, e il corsaro vero al pari di quello finto hanno vestito mille differenti anime, sempre adeguandosi ai tempi e ai gusti del momento per trovare una forma che rimarrà sostanzialmente definitiva con Marius Petipa, il francese che monopolizza i teatri imperiali per più di mezzo secolo.

È il 1899 e il coreografo, innamorato della danza accademica nata in Francia e in Italia, mette a punto la forma del “ballo grande”, con tanti personaggi e soprattutto tanta danza accademica ormai affidata quasi esclusivamente alle nostre danzatrici, spesso di formazione scaligera. Ballerine di un tempo, ben tornite, madri, infiorate, ingioiellate, bizzose, corteggiate da duchi e da re. E tuttavia connotate da una tecnica solidissima che farà scuola. Tuttavia anche la danza fine Ottocento rifugiata in Russia, mentre da noi dilaga il cattivo gusto della prima generazione di italiani, non è quella pura e smaterializzata di oggi. Mentre la musica, firmata Adolphe Adam, lo spirito belliniano che sorregge e fa piangere con Giselle, viene massacrata dalla commistione con differenti autori. Cosa che del resto capita anche a Beethoven, che scrive per il suo (quasi) unico balletto, Die Geschöpfe des Prometheus, dato a Vienna nel 1801 integralmente, già a Milano intercalato con musiche di ogni genere. Come osserva lo storico Sergio Trombetta, il cambiamento più brusco è quello della Russia sovietica, sotto le fustigate degli ukase che eliminano sogni e illusioni nel nome della modernità realistica e del popolare alla Stanislavskij. Oltre che per il fascino della danza libera di Isadora Duncan.

Il nostro Corsaro va per terra e per mare, tra zuffe e tempeste. Arriva a Vienna dove il maître du ballet Manuel Legris, l’attuale direttore del Ballo scaligero, lo riprende sfrondando, stilizzando, alleggerendo. Nasce il capolavoro di classicità oggi, leggermente modificato, alla Scala. Il taglio è sostanzialmente quello del “ballo grande” alla Petipa. Dove si balla e si balla senza troppa preoccupazione per la storia. Contano i pas de deux, i fouettèes, il numero di tours. I significati, pochi e fiabeschi, si perdono tra entrechat-huit e tour en tournant. Il palcoscenico è pieno, non mancano nemmeno i ragazzini della scuola che fanno ondeggiare ghirlande fiorite.

Difficile, quasi impossibile, star dietro al racconto, un intrigo di amori e piratesche coltellate e veleni concentrati specie sulle coppie Conrad e Medora, Gulnare e Birbanto, Lankedem e Zulmea. Non manca il pascià Seyd che le vorrebbe tutte e, almeno qui, una se la acchiappa. Gran protagonista il mare, quello che porta a terra i corsari e che alla fine li inghiotte tutti meno, miracolo!, la coppia princeps Medora-Conrad. Dobbiamo dire che la storia si segue a fatica perché quello che conta è la danza, inclusa la variazione di Conrad, nel pas de deux del secondo atto, che è la stessa riprodotta dell’unico spezzone che ci mostra il Nureyev bianco-nero e in mal in arnese del Kirov. Il nostro santino.

Il cast è destinato a cambiare i ruoli nel corso delle repliche, ma i ballerini hanno tutti un aplomb invidiabile. Che siano Nicoletta Manni e Timofej Andrijashenko, Claudio Coviello e Maria Celeste Losa, Antonella Albano e Marco Agostino… Non ci pare nemmeno il caso di raccontare le loro prodezze dal momento che declinano tutto il vocabolario della danse d’école con sicurezza, pulizia, rigore. E anche un pizzico di tenerezza quando ci vuole. Insomma bella la stilizzazione di Legris e splendido l’esercito di prodi.

A nostro avviso la vincitrice resta comunque Luisa Spinatelli, un nome importante. Magnifici i costumi, ma veri e propri acquarelli d’autore le scene. La nave in balia delle onde, le stelle che coronano l’amore dei due sopravvissuti Medora e Conrad, la visione del sipario astratto che apre e chiude sui toni del bianco e dell’azzurro. I cavalloni, le misteriose scogliere velate a strapiombo sul mare.

Il titolo è destinato a coloro che amano bellezza, perfezione, eleganza, intreccio di movimenti che si sviluppano all’infinito senza porsi troppi problemi esistenziali. Unico neo il direttore russo Valery Ovsyanikov che pure è stabile all’Accademia Vaganova di San Pietroburgo, nome del Marinskij e di molte mecche internazionali. Mentre l’orchestra non può che andare dietro ai suoi furori sonori. Ma diciamo che siamo tutti talmente presi dalla scena che quasi non ce ne accorgiamo. Il teatro, strapieno, esplode in uno dei suoi ormai mitici osanna.

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