Il 10 aprile 1913 debuttava con successo, al Piermarini, diretto da Tullio Serafin, quello che è considerato il capolavoro del musicista e compositore veneto Italo Montemezzi, il poema tragico in tre atti L’amore dei tre re. Opera a tinte fosche e potentemente drammatica, su enfatico libretto di gusto marcatamente estetizzante e decadente, con palesi influssi dannunziani, del drammaturgo toscano Sem Benelli (suo il celebre testo La cena delle beffe, poi musicato da Umberto Giordano e messo in scena sempre a Milano), in essa Montemezzi attua una riuscita fusione tra melodramma italiano e tradizione musicale transalpina. Si amalgamano, infatti, cantabilità e momenti lirici che richiamano Puccini; lussureggianti turgori orchestrali e sofisticati cromatismi alla Wagner (notevoli sono i rapporti con il trasfigurante Tristan und Isolde); simbolismi e atmosfere rarefatte in puro stile Debussy (con evidenti punti di contatto con Pelléas et Mélisande); cangianti sfumature di stampo straussiano. La cupa vicenda è ambientata in Italia in un Medioevo sanguinario e violento, “quarant’anni dopo un’invasione barbarica”, come recita il libretto; la trama ruota attorno alla passione di tre uomini per la stessa donna, Fiora, costretta alle nozze da ragioni politiche: il suocero, l’anziano barone cieco Archibaldo; il marito di lei e figlio di Archibaldo, il nobile Manfredo; il promesso sposo e ora suo amante, il principe italiano Avito. Inutile precisare come il lieto fine sia impossibile, con tali intricate premesse: nell’arco dei tre atti, infatti, moriranno Fiora, Avito e Manfredo, tra strangolamenti, avvelenamenti e l’inevitabile disperazione dell’unico superstite, il crudele vegliardo Archibaldo. A fronte di un’orchestrazione eclettica e sfaccettata, di uno svolgersi della storia stringato e rapido, di un libretto magniloquente, si evidenzia però una timida caratterizzazione dei personaggi, a tratti manierati e artefatti.
A centodieci anni dalla sua prima assoluta, bene ha fatto il Teatro alla Scala a riproporre questo curioso titolo di Montemezzi, assente dalle tavole milanesi dalle recite del 1953 con Victor de Sabata, Nicola Rossi Lemeni, Giuseppe Valdengo e Giacinto Prandelli, e portato al successo oltreoceano, nei decenni precedenti, da artisti della nomea di Arturo Toscanini, Claudia Muzio e Rosa Ponselle. A onor del vero, la produzione oggi in scena era, in origine, programmata per il 2020, con Carlo Rizzi e, nel cast, Federica Lombardi, Ferruccio Furlanetto, Roberto Frontali e Giorgio Berrugi, salvo poi essere cancellata per le ben note vicende pandemiche.
Per l’occasione, sul podio dell’Orchestra del Teatro alla Scala troviamo uno specialista della partitura, che ha già avuto modo di dirigerla molteplici volte, qui al debutto in un’opera (la sua unica apparizione scaligera risale alle tre serate del febbraio 2010 della stagione sinfonica, con le Szenen aus Goethes Faust di Schumann): Pinchas Steinberg, che subentra all’inizialmente previsto Michele Mariotti. Con gestualità scattante e nitida, il settantasettenne maestro nativo di Israele dà vita a una lettura rigogliosa e tesa, scolpita nel marmo con precisione, sbalzando via via sonorità turgide e di puro smalto, pennellate di carezzevole e terso lirismo, suoni brillanti e crepitanti. Steinberg domina con mano sicura la poliedricità dell’orchestrazione, regalandoci una direzione intrisa di decadentismo, liricità, impeto ed erotismo, senza per questo mai esagerare o risultare stucchevole.
Nel complesso valido il cast scritturato, con i relativi distinguo. Nei panni di Fiora si impone Chiara Isotton, grazie a una vocalità pastosa e corposa, di avvolgente tinta brunita, emessa con omogeneità e morbidezza, salda in tutti i registri e che corre con facilità nell’ampia sala teatrale. Gli acuti risuonano torrenziali e penetranti, i medi e i gravi sono ben appoggiati e torniti. Il soprano veneto emerge, altresì, per un’interpretazione sensuale e appassionata, nonché per un fraseggio cocente e drammatico. Una cantante che, indubbiamente, ci auguriamo di ascoltare più spesso a Milano.
Per la prima volta al Piermarini è il basso russo Evgeny Stavinsky, in sostituzione di Günther Groissböck. In possesso di una voce scura e sufficientemente profonda, malleabile e misurata nell’emissione, sonora e autorevole nelle note alte, a tratti opaca in quelle basse, Stavinsky delinea un Archibaldo sobrio e autoritario, mai sopra le righe; il fraseggiare appare prudente e contenuto, distaccato e algido.
Portamento fiero e statuario, recitazione convincente e puntuale, il Manfredo del baritono russo Roman Burdenko esibisce uno strumento vocale ampio, vigoroso e robusto, ben proiettato in acuti tonanti e centrati, solido e pieno negli altri registri. Giorgio Berrugi delinea un Avito declamatorio ed enfatico nel porgere la parola, dalla vocalità tenorile calda e schietta e, tutto sommato, di buon peso, a volte in difficoltà nella salita alle note alte, dove si avvertono slittamenti di intonazione e suoni meno timbrati.
Luminoso e ineccepibile il Flaminio di Giorgio Misseri; cristallino il giovanetto di Andrea Tanzillo; corrette e musicali Cecilia Menegatti (Un fanciullo), Silvia Spruzzola (Una giovanetta), Daniela Salvo (Una vecchia) e Fan Zhou (Ancella). Incisivi i brevi interventi corali, guidati con sicurezza da Alberto Malazzi.
Alla regia, dopo uno spettacolo intenso e di forte impatto estetico come Quartett di Luca Francesconi, proposto nel 2011 e ripreso nel 2019, torna alla Scala Àlex Ollé, uno dei sei direttori artistici della celeberrima compagnia catalana La Fura dels Baus. Ollé firma un allestimento deludente, statico, visivamente poco allettante, povero di idee, permeato di un’atmosfera di claustrofobica oppressione (per carità, quest’ultima in linea con il libretto) e dove non si percepisce un approfondimento dei vari personaggi. Le scarne e tetre scene di Alfons Flores, illuminate dalle luci fredde di Marco Filibeck, vedono il palcoscenico completamente vuoto, occupato solamente da un labirinto formato da dieci chilometri di catene e da sparuti elementi (un letto, una scala che dovrebbe evocare l’idea di un torrione del castello); il tutto, a simboleggiare il clima di soffocamento che si respira nella cruenta storia e i gioghi che imprigionano Fiora, Archibaldo, Manfredo e Avito. I protagonisti, spesso abbandonati a loro stessi e senza un vero e proprio disegno registico, si muovono tra queste cascate di catene, limitandosi a pochi gesti e affidandosi alle proprie capacità attoriali. Alla non riuscita dello spettacolo concorrono, infine, anche gli squallidi costumi di Lluc Castells, di foggia atemporale, con inserti in pelle nera per i tre uomini.
Teatro quasi esaurito e, al termine, cordiale accoglienza, con punte di maggiore entusiasmo per Steinberg e Isotton.
Teatro alla Scala – Stagione 2022/23
L’AMORE DEI TRE RE
Poema tragico in tre atti
Libretto di Sem Benelli
Musica di Italo Montemezzi
Archibaldo Evgeny Stavinsky
Manfredo Roman Burdenko
Avito Giorgio Berrugi
Flaminio Giorgio Misseri
Un giovanetto Andrea Tanzillo
Un fanciullo Cecilia Menegatti
Fiora Chiara Isotton
Ancella Fan Zhou
Una giovanetta Silvia Spruzzola
Una vecchia Daniela Salvo
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Direttore Pinchas Steinberg
Maestro del coro Alberto Malazzi
Regia Àlex Ollé/La Fura dels Baus
Scene Alfons Flores
Costumi Lluc Castells
Luci Marco Filibeck
Nuova produzione Teatro alla Scala
Milano, 3 novembre 2023