Milano, Teatro alla Scala – Il barbiere di Siviglia
Dopo l’Adelaide di Borgogna andata in scena a Pesaro, l’ambientazione teatrale ritorna anche nel Barbiere di Siviglia presentato alla Scala per il Progetto Accademia, coinvolgendo quindi coro, orchestra e solisti dei corsi di perfezionamento scaligeri, per la regia di Leo Muscato e la direzione di Evelino Pidò. Per la verità nella recita qui recensita solo i ruoli dei comprimari erano affidati ad allievi dell’Accademia, mentre per il quartetto dei protagonisti sono stati scelti cantanti con carriere già più o meno avviate (ma spesso ex studenti della Scala); il cast alternativo lascia invece più spazio agli allievi attivi.
Tra i protagonisti, spicca il Don Bartolo di Marco Filippo Romano, specialista del ruolo. Romano tratteggia un Bartolo irascibile e pragmatico, che ricorda un po’ lo stereotipo comico dell’imprenditore lombardo. Il risultato è perfetto, tra un uso impeccabile dei tempi comici e della recitazione e la consapevolezza con cui ogni nota, ogni sillaba, ogni dinamica contribuisce alla caratterizzazione del personaggio: e infatti è proprio l’aria “A un dottor della mia sorte” a riscuotere il maggior successo tra il pubblico. Il problema forse è che, con un Don Bartolo del genere, risulta più evidente la minor esperienza del resto del cast. La cosa si fa palese nei duetti dove Bartolo deve fornire la linea di basso, le cui cadenze, pur armonicamente semplici, sono spesso più interessanti all’ascolto rispetto alle fioriture di Almaviva o di Rosina, e sembra quasi che il ruolo di melodia e accompagnamento sia invertito.
Non solo. Negli scioglilingua, la differenza tra Romano e Huanhong Livio Li, allievo dell’accademia della Scala che interpreta Don Basilio, è abissale. Uno articola con scioltezza tutte le sillabe della partitura, l’altro (ma comprensibilmente, vista la difficoltà dell’aria e la minor dimestichezza con il ruolo) è troppo concentrato a far corripondere note e parole per rendere davvero la crescente tensione della “Calunnia”. Per il resto, anche per conformazione di voce, Huanong Li interpreta Basilio più come una macchietta comica, una spalla di Bartolo: mancando di pienezza nel registro più grave, la parte del solenne imbroglion di matrimoni non può avere quella profondità che lo rende, nelle migliori esecuzioni, un personaggio oscuro e diabolico.
Chuan Wang, nel ruolo di Almaviva, mostra ottima agilità ed esegue variazioni non banali, malgrado, in apertura, mostri qualche difficoltà nel registro più acuto, che vengono comunque superate durante la recita. Pecca però di una certa piattezza e resta un po’ ingessato nella recitazione: la voce non cambia tra i versi più lirici della serenata e gli accenti di giubilo e contento in “Ah, che d’amore”. Privato dell’aria finale, comunque, Almaviva resta in generale un po’ in sottotono in questa produzione.
La voce calda e scura di Chiara Tirotta rende una Rosina un po’ atipica, più saggia e riflessiva che astuta e vendicativa. Non sorprende quindi che l’interpretazione risulti più centrata nel rondò dell’Inutil precauzione piuttosto che nell’aria di sortita. In ogni caso, avendo necessità di sostenere e rinforzare i suoni più acuti, evita con intelligenza nelle variazioni di cercare “stilettate” in acuto, preferendo scale e fioriture sui toni vicini a salti pirotecnici. Il risultato però è quello di una Rosina molto più dolce e amorosa che vipera pronta a far scattare cento e cento trappole.
Veniamo a Figaro. Paul Grant ha buona voce, ma risulta a volte un po’ approssimativo nell’emissione, finendo per esagerare alcuni stilemi senza riuscire a caratterizzare pienamente il personaggio. Insomma, non si direbbe che Figaro è il regista dell’intera operazione che porta alle nozze tra il Conte e Rosina.
Brava Greta Doveri nel ruolo di Berta (meglio nell’aria del secondo atto che nel recitativo, questa volta eseguito, del primo, dove appare un po’ ingessata). Bella voce quella di Giuseppe De Luca, nel doppio ruolo di Fiorello e dell’Ufficiale.
La direzione di Evelino Pidò ha il merito di tenere assieme tutta la compagnia evitando facili scollamenti tra buca e palcoscenico e ha anche il pregio di contenere le dinamiche senza mai sovrastare i cantanti. Pidò non cerca l’effetto speciale né gli eccessi nell’agogica, e si mostra attento nel gestire gli attacchi e i volumi intervenendo spesso a correggere in corso d’opera e l’orchestra. Ne risulta un Rossini contenuto, quasi cameristico, dove non svettano l’ottavino e il triangolo, ma dove talvolta si avverte una certa mancanza nelle frequenze più gravi. L’edizione eseguita è quella di Zedda edita dalla Ricordi. Sull’integralità, il discorso è duplice. Se alcuni tagli tradizionali vengono giustamente riaperti, spariscono dai recitativi intere scene. Non si fa, come al solito, “Cessa di più resistere”, ma Pidò difende la scelta in un’intervista pubblicata sulla rivista del teatro, asserendo che Rossini compose l’aria “controvoglia”. Senza voler entrare nella vexata quaestio, sarebbe stato interessante ascoltare le agilità di Chuan Wang anche in questo difficile frangente.
L’orchestra dell’Accademia della Scala risponde bene alla bacchetta di Pidò, malgrado qualche problema di assieme nei primi accordi della sinfonia d’apertura. Le prime parti dei fiati eseguono validamente i loro assoli ma l’orchestra non ha un suono proprio e ben distinguibile, e si sente più il contributo dei singoli che l’assieme. Del resto questo è ben comprensibile se si considera che si tratta di un ensemble di allievi dell’Accademia con un continuo ricambio di musicisti. Buona, ma un po’ anonima, la prova del coro dell’Accademia diretto da Salvo Sgrò.
Lo spettacolo di Leo Muscato, si diceva, ambienta l’opera in un teatro di una volta, ricostruito nelle scene da Federica Parolini. L’idea è buona, e funziona bene. Don Bartolo è perfetto nei panni dell’impresario, Rosina è una giovane cantante (o ballerina?), Figaro ovviamente il factotum del retropalco che entra in scena dalla buca del suggeritore, Don Basilio, vestito da prete, uno spettatore abituale. La realizzazione invece lascia un poco a desiderare. L’organizzazione dello spazio è un po’ banale, gli aspetti metateatrali ridotti a cliché (però belli i costumi dello spettacolo nello spettacolo!), certe mossette francamente insopportabili. Insomma, se Figaro è davvero un factotum perché fargli cantare l’aria di sortita di fronte a un sipario chiuso, invece di mostrare la frenetica vita dietro le quinte? Dopo aver visto l’Adelaide pesarese il finto teatro di Muscato appare veramente un po’ ingenuo (per quanto la scelta di far entrare nel finale Figaro e Almaviva da una macchina scenica calata dall’alto sia davvero felice).
Una produzione sicuramente più adatta a un teatro più piccolo che al palco del Piermarini, che offre molte più possibilità. E anche la compagnia di canto, forse, sarebbe stata più consona a una piazza meno prestigiosa. Va detto in effetti che il Barbiere è un’opera assai complessa, dove la caratterizzazione dei personaggi gioca un ruolo essenziale: e infatti la differenza di esperienza tra i componenti del cast è saltata subito all’occhio. Senza la grande prova di Marco Filippo Romano, avremmo assistito a un Barbiere tutto sommato corretto ma indiscutibilmente noioso. [Rating:2.5/5]
Teatro alla Scala – Progetto Accademia
IL BARBIERE DI SIVIGLIA
Opera buffa in due atti
Libretto Cesare Sterbini da Le Barbier de Séville ou la Précaution inutile
di Pierre-Augustine Caron de Beaumarchais
Musica Gioachino Rossini
Conte d’Almaviva Chuan Wang
Bartolo Marco Filippo Romano
Rosina Chiara Tirotta
Figaro Paul Grant
Basilio Huanhong Livio Li
Fiorello/Ufficiale Giuseppe De Luca
Berta Greta Doveri
Orchestra e Coro dell’Accademia Teatro alla Scala
Direttore Evelino Pidò
Maestro del coro Salvo Sgrò
Regia Leo Muscato
Luci Alessandro Verazzi
Coreografia Nicole Kehrberger
Scene Federica Parolini
Costumi Silvia Aymonino
Milano, 8 settembre 2023