È lo spettacolo di repertorio più longevo della storia recente della Royal Opera House di Londra. Si tratta della produzione di Turandot di Giacomo Puccini, firmata da Andrei Serban, andata in scena per la prima volta nel 1984 e ripresa 15 volte nel corso degli ultimi 40 anni. La sedicesima ripresa è stata curata con cura da Jack Furness e, per la prima volta, ha visto impegnato dalla buca il maestro Antonio Pappano. Il direttore musicale della ROH, che al termine della stagione 2023-2024 ultimerà il suo mandato per diventare direttore della London Symphony Orchestra, era al suo debutto alla direzione, in forma scenica, dell’ultimo titolo pucciniano. Una prima volta che in realtà faceva seguito al debutto in forma di concerto lo scorso anno a Santa Cecilia, esecuzione che aveva fatto seguito alla registrazione per Warner, pubblicata proprio in questi giorni. Se l’incisione romana poteva contare su un cast di super-stelle (Radvanovsky/Kaufmann/Jaho), la produzione londinese vede invece impegnati due cast differenti (Jaho sarà Liù nel secondo cast). Questo resoconto si riferisce alla seconda recita del primo cast, dove hanno brillato la stella italianissima del soprano Anna Pirozzi, molto apprezzata dal pubblico nel ruolo del titolo (alla prima recita è stata accolta da una pioggia di fiori da uno dei palchi) e la Liù del soprano emergente Masabane Cecilia Rangwanasha, tra i giovani talenti della ROH e vincitrice nel 2021 della prestigiosa BBC Cardiff Singer of the World Competition. Recite da tutto esaurito ed entusiasmo alle stelle non solo per il cast e Pappano, ma anche grazie a un allestimento tradizionale che non ne vuole sapere di invecchiare. Alla fine è stato un trionfo.
Partiamo proprio dal commentare l’esecuzione musicale sotto la bacchetta del maestro italo-inglese. Come detto, non si è trattato di un debutto vero e proprio, ma per la prima volta Antonio Pappano si è confrontato di fatto con la dimensione teatrale dell’opera. Che dire, è stato strepitoso, forse la prova più galvanizzante degli ultimi suoi anni alla ROH, quasi come se avesse voluto mettere a servizio tutta la sua esperienza di uomo di teatro. Il maestro è riuscito a plasmare un suono energico ma sonoramente compatto, pulito e preciso anche nei momenti più debordanti come negli interventi degli ottoni. È stato però attento anche ai momenti di puro lirismo o cantabilità, ai colori, al fraseggio. Ha reso con grande inventiva la partitura pucciniana, nei suoi momenti taglienti, nei richiami alla maestosità dell’antica Cina, nelle sue dissonanze e nella sua impalcatura tematica e sinfonica. A livello di agogiche, la tensione è stata mantenuta per tutta l’opera, al netto di qualche lieve disallineamento nel primo atto e alcuni silenzi a preparazione di alcuni interventi di Turandot forse anche per esigenze di movimento scenico, queste brevissime pause hanno comunque conferito una certa suspense drammatica. Nel complesso, una prova superba.
La compagine di canto è nell’insieme ben assortita, anche se sono le voci femminili a colpire maggiormente. Anna Pirozzi dà vita a una principessa altera e fredda (sicuramente per portamento e gestualità), ma non completamente glaciale, fin da subito tormentata da sprazzi di vulnerabile umanità. Già quando attacca “In questa reggia” e piega poi il canto nel successivo verso “Qui nell’anima mia si rifugiò/ Principessa Lou-Ling”, Pirozzi fa presagire il lato umano del personaggio che diverrà poi più evidente dopo lo sgelo. Efficace anche nella scena degli enigmi, dove rimane credibile e regale, senza declamare o forzare troppo con la voce. Come avevamo scritto in precedenza, la vocalità è importante con acuti e puntature taglienti come lame che bucano con facilità le masse corali e orchestrali, arrivando a fine sala con grande risonanza. La sua è decisamente una bella prova per equilibrio vocale-interpretativo nella resa del personaggio.
Il soprano sudafricano Masabane Cecilia Rangwanasha è una delle giovani voci del momento, ancora sconosciuta in Italia ma già molto richiesta nel Regno Unito e altrove. Gli acuti sono luminosi ma hanno corpo e sono saldi nella gestione del vibrato. La cantante è poi abile nel gestire smorzature, crescendo e diminuendo. Molto apprezzabile sia la resa della toccante preghiera “Signore, ascolta” che quella di “Tu che di gel sei cinta”, venata di nostalgia ma animata dalla determinazione di affrontare la principessa di gelo. Una brava cantante da tenere d’occhio.
Yonghoon Lee, come Calaf, ha nel complesso il volume e la proiezione giuste per tenere testa a Pirozzi, Pappano e l’orchestra. Il personaggio denota il giusto taglio eroico. Tuttavia ci sembra che il suono in acuto non si apra mai in maniera completamente libera e squillante, risultando invece al limite della forzatura, come in “Nessun Dorma”. Il timbro non è sgradevole di per sé, ma si preferirebbe una maggiore eleganza nel plasmare il fraseggio di “Non piangere Liù”. Non entusiasmano poi certe mezzevoci con effetto sbadiglio e un’eccessiva apertura del suono nella gestione di alcune vocali. Perfettibile la dizione. Ping, Pong e Pang (rispettivamente interpretati da Hangsung Yoo, Michael Gibson e Aled Hall, con una nota di apprezzamento soprattutto per il primo) sono efficaci nell’alternare ironia e sadico cinismo, ma si abbandonano anche al lirismo di “Ho una casa nell’Honan”.
Il Timur di Vitalij Kowaljow ha adeguata autorevolezza in termini di vocalità ed è credibile nel rendere il dolore per il suicidio di Liù. Alexander Kravers rende vocalmente l’interpretazione di un imperatore Altoum che non solo appare indebolito dalla vecchiaia e dalla malattia (in questa ripresa la testa è leggermente reclinata sulla spalla, lo sguardo un po’ malinconico e la mano sinistra affetta da tremore), ma anche impotente di fronte alle scelte di Turandot. Non troppo incisivo il mandarino di Blaise Malaba il cui “Popolo di Pekino” non comunica timore autoritario come dovrebbe.
Non saremo ai livelli di monumentalità zeffirelliana, ma lo spettacolo di Andrei Serban non solo è funzionale ma è anche un piacere per gli occhi, come quando l’imperatore Altoum viene calato dall’alto su un trono dorato o come quando, all’inizio del terzo atto, si aggirano figuranti muniti di lanterne. Serban richiama l’argomento fiabesco della pièce teatrale di Carlo Gozzi a cui si ispira il libretto e per Ping, Pang e Pong, invece della caratterizzazione cinese stereotipata, vengono scelte maschere e movenze tipiche della commedia dell’arte. Le scenografie ideate da Sally Jacobs, scomparsa nel 2020, sono costituite principalmente da una struttura fissa di legno munita di ingressi, che ricrea gli spalti della città imperiale e che si affaccia su una sorta di pubblica arena dove avviene tutta l’azione. Proprio su questi spalti su più livelli viene dislocato il coro che circonda i protagonisti e indirettamente il pubblico, conferendo un’atmosfera di oppressione e giudizio. Grosse maschere minacciose ricordano inoltre i decapitati corteggiatori della principessa e dall’alto vengono fatti cadere simbolicamente drappi rossi e bianchi. Altri elementi scenici sono più polverosi se vogliamo, come l’ingombrante luna che viene anch’essa calata dall’alto. Jacobs firma anche i costumi, tutti coloratissimi e nel complesso credibili, al netto delle perplessità suscitate dal boia, tutto verde e mascherato da anfibio a ricordare più un eroe manga che un giustiziere.
Le coreografie delle masse di figuranti, curate abilmente da Kate Flatt, sono efficaci nel mitigare il carattere statico di un’opera come Turandot. Flatt, insieme al regista, si sono ispirati alle danze tradizionali cinesi, al Tai Chi e ai movimenti teatrali delle maschere della commedia dell’arte. Le luci di F. Mitchell Dana vengono proiettate dall’alto o dai lati, trapassando attraverso gli intarsi delle scene di legno e creando effetti suggestivi. Efficace l’atmosfera notturna che precede il “Nessun dorma” del terzo atto.
Il coro, diretto da William Spaulding, nonostante le difficoltà logistiche della sua dislocazione su più livelli, è particolarmente efficace nei momenti di più alta intensità drammatica e nei finali d’atto. Molto suggestivo anche il coro di voci bianche.
Al termine, applausi calorosi con picchi di entusiasmo per Anna Pirozzi e Masabane Cecilia Rangwanasha, oltre che per il maestro Pappano, che almeno per quanto concerne l’opera italiana verrà sicuramente rimpianto quando lascerà la ROH fra meno di due anni. Subito dopo la prima dello spettacolo erano circolate voci di un suo probabile pensionamento al termine di queste recite. Il teatro è stato costretto alla smentita. Se dopo 40 anni un allestimento tradizionale fa ancora il tutto esaurito (non più così frequente nel post pandemia) e scatena ancora tale entusiasmo, vuol dire che è un evergreen e sarebbe quindi da stupidi rimpiazzarlo.
Royal Opera House – Stagione d’opera e balletto 2022/23
TURANDOT
Dramma lirico in tre atti e cinque quadri
Libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni
Musica di Giacomo Puccini
Turandot Anna Pirozzi
L’imperatore Altoum Alexander Kravers
Timur Vitalij Kowaljow
Calaf Yonghoon Lee
Liù Masabane Cecilia Rangwanasha
Ping Hangsung Yoo
Pong Michael Gibson
Pang Aled Hall
Un mandarino Blaise Malaba
Orchestra e Coro della Royal Opera House
Direttore Antonio Pappano
Maestro del coro William Spaulding
Regia Andrei Serban ripresa da JackFurness
Scene e costumi Sally Jacobs
Luci F. Mitchell Dana
Movimenti coreografici Kate Flatt
Produzione di repertorio della ROH
Londra, 13 marzo 2023