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Firenze, Teatro del Maggio, Auditorium – The Rake’s Progress

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Igor Stravinskij trova l’idea per il suo più ambizioso lavoro teatrale nel 1947 a Chicago, dove vede una serie di stampe di William Hogarth, artista inglese del Settecento, che riprendono il famoso ciclo di dipinti del Sir John Soane’s Museum, A Rake’s Progress (La carriera di un libertino). Il compositore ha ormai 65 anni, si è lasciato alle spalle la Russia, l’Europa e l’Avanguardia, e risiede stabilmente a Beverly Hills attorniato dagli intellettuali. Tra questi, Aldous Huxley, scrittore inglese di conoscenze enciclopediche, il quale consiglia a Stravinskij che se vuole un libretto tratto da Hogarth deve rivolgersi a un certo Wystan Hugh Auden. Questo poeta inglese che si era fatto interprete della poesia civile del suo paese, è anche lui un emigrato negli Stati Uniti, ma vive nella più introversa New York City. Stravinskij invita Auden sulla West Coast e i due si accordano per il libretto. Tuttavia Auden fa entrare in campo un terzo incomodo, cioè Chester Kallman, un ragazzo ebreo di Brooklyn, coltissimo appassionato di opera che diventerà il grande amore della vita del poeta inglese. I due lavorano gomito a gomito, abbuffandosi di serate al Met, e confezionano un libretto di sapore arcaico ma che fluisce come il migliore film di Hollywood. Stravinskij all’inizio non è felicissimo dell’intrusione ma, una volta conosciuto, ammette che Kallman è un genio. Nasce così The Rake’s Progress, che vede la luce alla Fenice di Venezia l’11 settembre 1951.

Con questo lavoro Stravinskij omaggia la sua nuova patria e allo stesso tempo fa una vera e propria dichiarazione d’amore verso il genere operistico: confeziona quindi un’opera a pezzi chiusi in cui la musica sembra un pastiche di ispirazioni che vanno da Monteverdi a Čajkovskij, passando per l’eterno Mozart, in un sottile gioco intellettuale di rimandi fitti degni del Falstaff verdiano. Se inizialmente il successo sembra compromesso dalla predominante intellighentsia Darmstadtiana, il riscatto del Rake avviene gradualmente a partire dall’area anglosassone, in particolare con lo storico allestimento di Glyndebourne del 1975, con la regia di John Cox e le scene di David Hockney, un classico che viene ripreso ancora oggi dopo quasi mezzo secolo.

Frederic Wake-Walker prova ad attuare una sintesi tra il Settecento vagheggiato da compositori e librettisti e la contemporaneità riadattando (o forse riprendendo in toto) lo spettacolo allestito qualche mese fa alla Royal Academy of Music di Londra. Tutto si basa sui cangianti video di Ergo Phizmiz, in un misto di collage e animazioni proiettati su quinte che si muovono e si aprono per ampliare la scena. I costumi firmati da Anna James sono un misto di fogge settecentesche e abiti moderni che sfociano spesso volutamente nel kitsch come le proiezioni, che tra accostamenti, suggestioni visive e capovolgimenti, ci portano in una Londra destrutturata e decadente che si nasconde sotto il velo dell’eccesso. Non è un caso che le parti più riuscite della regia siano alla fine quelle in cui è protagonista Baba, quasi plasmata sui lati più camp di alcune popstar, Lady Gaga in primis: spettacolare la sua rivelazione attorniata da simil-paparazzi, quasi un reality il suo monologo, e perfettamente diva nella scena dell’asta. Gli altri personaggi vengono invece caratterizzati in modo fin troppo scontato, e spesso lasciati soli a sé stessi, con l’eccezione della già citata Baba e di Sellem: persino il mefistofelico Nick Shadow sembra spiccare più grazie alle volontà dell’interprete che per il disegno registico. Wake-Walkers finisce quindi per porsi a metà tra la visione ormai classica di John Cox e lo squarcio moderno operato da Simon McBurney al Festival di Aix-en-Provence nel 2017, ma la sua lettura non riesce ad andare oltre la superficie delle proiezioni eccentriche alla instagram.

In una regia quindi lasciata a metà, il tutto viene retto da una perfetta direzione di Daniele Gatti, che opta per una certa stringatezza narrativa. La sua lettura è organica, ma mette in luce ogni singola cellula musicale, facendo assaporare tutto il citazionismo stravinskijano, in un perfetto gioco di incastri, dove ogni suono ha una sua ragione teatrale. Nell’ambiente privilegiato dell’Auditorium, le voci si fanno tutt’uno con un’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino in stato di grazia, dal suono compatto e corposo, così come il Coro, preparato da Lorenzo Fratini, preciso e ben amalgamato soprattutto nella scena dell’asta.

Il cast si dimostra di buon livello. Su tutti spicca la prova di Sara Blanch come appassionata Anne Trulove. La voce da soprano leggero si trova più a suo agio nella zona acuta che negli affondi più gravi su cui ogni tanto gravita la tessitura, ma il timbro è cristallino e il fraseggio impeccabile: i grandi pregi emergono soprattutto nella grane scena che chiude il primo atto, dove sa affrontare senza colpo ferire sia le lunghe frasi di “Quietly night”, alla fine della quale le viene tributato anche un applauso fuori prassi, che la funambolica “I go, I go to him”, con le sue agilità e passaggi di coloratura.
Matthew Swensen tratteggia un Tom Rakewell che incarna perfettamente l’idea di uomo qualunque trascinato in una banale depravazione. In ciò lo aiutano anche il timbro non personalissimo e una voce chiara, ben proiettata, che svetta soprattutto nei momenti più elegiaci. Centratissimo risulta invece il Nick Shadow di Vito Priante, a metà strada tra un mellifluo Don Giovanni e un Mefistofele borghese. Dotato di uno strumento di bel colore, buon volume e una linea omogenea, Priante disegna il suo Nick anche a colpi di fraseggio e adeguate doti attoriali. Adriana Di Paola è una Baba the Turk magnetica per presenza scenica. Anche se la voce tende ad assottigliarsi nei momenti più concitati, e alcune note gravi risultano artificiosamente gonfiate, sa brillare quando la tessitura si fa più centrale e le frasi si distendono, così che si può apprezzare il suo bel timbro caldo.
James Platt disegna un padre Trulove autorevole, grazie alla potente voce di basso. Christian Collia cesella adeguatamente il personaggio di Sellem nella scena dell’asta, grazie a un ottimo senso del ritmo e a una vocalità ideale per il ruolo. Marie-Claude Chappuis è una Mother Goose centrata ed esuberante, mentre corretto appare Matteo Torcaso nel ruolo del Guardiano del manicomio di Bedlam.
Il pubblico numeroso si dimostra attento e partecipe per un titolo non così popolare e alla fine tributa grandi applausi per tutti, con punte di entusiasmo per Blanch e Gatti.

Teatro del Maggio – Stagione 2022/23
THE RAKE’S PROGRESS
Opera in tre atti
Libretto di Wystan Hugh Auden e Chester Kallman
Musica di Igor Stravinskij

Tom Rakewell Matthew Swensen
Anne Trulove Sara Blanch
Nick Shadow Vito Priante
Baba the Turk Adriana Di Paola
Father Trulove James Platt
Sellem Christian Collia
Mother Goose Marie-Claude Chappuis
Keeper of the Madhouse Matteo Torcaso

Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Daniele Gatti
Maestro del coro Lorenzo Fratini
Regia Frederic Wake-Walker
Scene e costumi Anna Jones
Luci Charlotte Burton
Video Ergo Phizmiz

Nuovo allestimento
Firenze, 12 marzo 2023

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