L´opera buffa più “sperimentale” di Gioachino Rossini, Il turco in Italia, è tornata al Teatro Colón di Buenos Aires dopo molti anni dall’ultima ripresa. Sul programma di sala si è voluto celebrare con una foto di Maria Callas nei panni di Fiorilla il centenario della nascita del mitico soprano greco (che qui, nel 1949, ha cantato in Norma, Aida e Turandot). La prima recita ha offerto anche l’occasione per ricordare la grande Renata Scotto, recentemente scomparsa. La sala non era gremita (il titolo non è poi così noto), ma il pubblico presente ha applaudito puntualmente quasi tutti i numeri, dimostrando alla fine gradimento anche se non grande entusiasmo, tolto qualche bravo dal loggione.
Il nuovo allestimento per la regia di Pablo Maritano, molto attivo nei teatri lirici del cosiddetto Cono Sud dell’America Latina, era molto interessante anche se certe soluzioni sono risultate un po’ ripetitive e mancava il ritmo della messinscena di Pelly a Madrid. Un albergo tardo ottocentesco, o primo Novecento, ideato da Gonzalo Córdoba Estévez e realizzato molto bene, girava su una piattaforma consentendo di creare spazi diversi: le camere, la stanza del Poeta, una cucina troppo affollata e dove succedevano tante cose poco o nulla importanti per la trama, con tante comparse (peccato l’ascensore rumoroso e oscillante). A questo si aggiungevano i bei costumi di Renata Schussheim, le luci di Caetano Vilela e i video per niente invadenti realizzati da Matías Otálora per la sinfonia e l’inizio del secondo atto.
La parte musicale presentava qualche inconveniente. Non si capisce perché si debba aggiungere un’aria per Prosdocimo: certamente è un peccato che il personaggio non l’abbia (del resto non l’ha nemmeno Selim, il protagonista, la cui cavatina iniziale “Bella Italia” diventa subito un duetto), e meno ancora perché si debba iniziare il secondo atto con la tempesta del Barbiere di Siviglia. Ma questo non era il problema maggiore. La direzione di Jordi Bernàcer è sembrata infatti pesante, poco divertente e sofisticata (la sinfonia pareva una serie di pezzi messi insieme) e per di più non si preoccupava di fare quasi sparire la voce di Fabio Capitanucci, in particolare nella sua grande scena del secondo atto (“Se ho da dirla”, aggiunta da Rossini per delle recite a Roma, con un sillabato pazzesco). Appunto questo Geronio era l’elemento debole del cast. Capitanucci è stato in origine un baritono e poi è diventato basso buffo. Ma non è un basso (la voce chiara, spesso troppo “indietro”, arrivava con difficoltà in sala) e tanto meno un buffo caricato, per cui la sua interpretazione non riusciva a superare certi problemi vocali e anche l’aspetto comico era poco a fuoco. Fin troppo evidente la differenza di volume con il Selim di Erwin Schrott, molto più a suo agio che alla Scala e in stato di grazia vocale. Un Turco seduttore e appassionato: la regia era parecchio esplicita sul suo appetito sessuale e quello di Fiorilla. Grazie anche al timbro pastoso e omogeneo, Schrott ha realizzato un ritratto a tutto tondo del personaggio.
Come si sa la vera protagonista, quanto a difficoltà vocali e lunghezza del ruolo, è Fiorilla. Irina Lungu non ha un colore particolarmente personale, ma è una brava professionista, regge bene la tessitura della parte e recita bene. Il Narciso di Santiago Ballerini, molto applaudito, esibiva una voce più piccola e meno bella che in recenti interpretazioni europee (non so quanto possa dipendere dalla vastità del teatro, che però continua a vantare un’acustica portentosa). Meglio nella prima aria che nella seconda, più insidiosa, si è però fatto nel complesso valere.
Germán Alcántara era il Poeta. Per fortuna controllava quasi sempre la sua tendenza a strafare (ricordo una morte di Posa al concorso Viñas di Barcellona davvero imbarazzante per le troppe forzature). Il materiale è buono, ma cantare sempre forte non è il massimo per Rossini e ancora meno per un personaggio arguto e sottile che deve brillare nei recitativi.
Considerato che, al debutto dell’opera a New York, Zaida era interpretata nientemeno che dalla Malibran, non dovrebbe stupire che qui si sia scritturata la brava Francesca Di Sauro che ha interpretato bene una parte non facile e ingrata. Albazar ha esibito ovviamente la sua aria del sorbetto “Ah, sarebbe troppo dolce” e così il valente giovane tenore Santiago Martínez – già notato per il suo Ruiz nel precedente Trovatore – ha avuto il suo momento di gloria.
L’orchestra suonava bene entro i limiti indicati, mentre il pur pregevole coro istruito da Miguel Martínez o era troppo numeroso o cantava troppo forte (per esempio negli interventi durante la grande aria di Fiorilla). Poco azzeccata, infine, l’idea di usare il pianoforte per accompagnare i recitativi.
Buenos Aires, Teatro Colón, 5 settembre 2023
Foto copertina: Máximo Parpagnoli