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Barcellona, Gran Teatre del Liceu – Manon

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Manon di Jules Massenet, qui molto amata, mancava dal Gran Teatre del Liceu da circa tre lustri. All’epoca era andata in scena nel buon (non geniale) allestimento di David McVicar. Non credo si sentisse particolarmente il bisogno di uno spettacolo nuovo, questa volta realizzato in coproduzione con Ginevra e Parigi (Opéra Comique).
Se si dice Olivier Py, subito si pensa: “vero uomo di teatro – non solo lirico – ma parecchio arbitrario”. Delle volte capita che ci azzecchi (Les Huguénots a La Monnaie di Bruxelles), più frequentemente si lascia prendere la mano. Si è trattato di una buona regia? Assolutamente sì. È riuscito a esprimere il senso di musica e testo del capolavoro di Massenet? Decisamente no.

Se come scena unica (ma cos’è questa mania?) si sceglie, anziché l’ambientazione nella provincia francese piccoloborghese, un posto losco di postriboli e prostitute, al cui confronto il quartiere a luci rosse di Amsterdam è un film di Disney, tutto risulta sbagliato o, peggio, deformato. Mentre il coro canta tra le quinte all’arrivo del cocchio d’Arras, assistiamo a una specie di tango vagamente sadomaso. Quando finalmente si presenta in scena, piove: chissà perché quando c’è il coro in uno spazio aperto piove sempre (certo, gli ombrelli sono belli e colorati, e fanno pensare a Les parapluies de Cherburg). Ed ecco Manon: la prima cosa che fa – con l’aiuto del cugino che poco prima fa i suoi bisogni contro la parete del muro – è mettersi in sottoveste, e subito tutti le mettono le mani addosso: in questa condizione, canta i suoi due primi assolo accompagnata dal rumore dei biglietti che girano per pagarne i favori. Tralascio il secondo atto, dove non c’è neanche la petite table – il “picciol desco” della famosa e alquanto infame traduzione italiana – ma un letto sul fondo dove gli amanti si “esercitano” e devono pure cantare (e il palcoscenico del Liceu non è piccolo). Arrivati al Cours La Reine, viene propinato uno spettacolo da circo (magari fosse stato il Moulin Rouge ou Maxim’s), dove Manon canta la sua gavotte con tre ballerini che fanno dei movimenti osé stile anni venti del secolo scorso. Detti tre più una ballerina sono tutto il farsesco balletto dell’Opéra che Guillot scrittura per vincere il rivale De Bretigni: veramente squallido. A Saint Sulpice la douce image è un gioco di ombre di una donna e tre uomini: uno è un satiro, e qua e là compaiano personaggi mascherati da maiali; perfino Manon indossa una maschera della morte mentre Des Grieux le racconta il suo sogno. Altro particolare: Manon muore vestita da regina con Des Grieux che la carica di perle e diamanti (le beau diamant del testo fa chiara allusione alla prima stella che si vede – ne abbiamo un fondale strapieno). Infine, siccome per il regista Massenet e i suoi librettisti non avevano il senso del teatro, la prima parte dello spettacolo finisce con il primo quadro dell’atto terzo, che chiaramente richiede una continuazione, posto che finale d’atto non è.

Arrivati alla parte musicale, mi attendevo grandi cose da Marc Minkowski, perché anche se lo preferisco nel barocco, ma non in Mozart, l’ho ascoltato in un paio di Offenbach di tutto rispetto. Purtroppo, la direzione risulta pesante, in alcuni momenti frettolosa (il balletto dell’atto terzo), in altri fragorosa. E si sa che l’orchestrazione di Massenet pretende la trasparenza e la filigrana – che qui si percepiscono solo occasionalmente, ad esempio nell’introduzione del secondo atto – ma anche la sensualità e la passione, che non si ottengono solo con dinamiche estreme. L’orchestra suona bene, quanto a tenuta e compattezza, e anche il coro istruito come sempre da Pablo Assante è in buona forma.

Dal momento che quest’anno ricorrono i cent’anni dalla nascita di Victoria de los Ángeles, grande Manon al Liceu (il personaggio che ha più cantato qui), tutte le recite le vengono dedicate e in teatro viene esposto un vestito – meraviglioso – dello spettacolo del 1956. Questo certo non rende le cose più facili per chi interpreta un ruolo tra i più completi e difficili della letteratura operistica. Nadine Sierra avrebbe dovuto sostenere una delle due recite a cui ho assistito, ma avendo già cantato due sere di fila per aver sostituito la collega del secondo cast indisposta, ha preferito non esibirsi una terza serata lasciando il palco ad Amina Edris, che nel frattempo si era ripresa. Il pubblico ha protestato con grida e fischi dimostrando non poca maleducazione.

Le due esibizioni di Amina Edris – la seconda più della prima – sono state buone. L’artista egiziana canta e recita bene, ha un buon francese, e si tratta più di un soprano lirico che di un lirico-leggero: ha fatto bene pertanto a rinunciare a sopracuti rischiosi, e quindi ha figurato al suo meglio più nell’atto secondo e poi da Saint Sulpice fino alla fine. Il timbro non è molto personale e l’estremo acuto suona qualche volta un po’ asprigno, ma il giudizio complessivo è decisamente favorevole.
Des Grieux non è meno difficile. Michael Fabiano ha un bel timbro ma è corto di acuto e pretende di risolvere questo limite col volume e aprendo il suono: strada pericolosa. Quando arriviamo alle fondamentali mezzevoci (come già era successo con il suo Cavaradossi nel terzo atto di Tosca), non si sa se lamentare di più che le faccia o le ignori (basti dire che il “Sogno” è passato in assoluto silenzio). Personalmente, mi ha molto sorpreso la prova di Pene Pati nell’altro cast, che ha esibito un canto tutto francese, dizione eccellente, intonazione precisa, filati da manuale, fiato e legato ottimi, acuti buoni: senza mai forzare una voce non torrenziale, si è fatto sentire, eccome! Gli applausi più veementi della serata (non solo dopo le due arie) sono stati per lui. Per quando poi non abbia una figura cinematografica come oggi si pretende, si vede che è giovane e agile, e fondamentalmente esprime bene gli umori contrastanti del suo personaggio. Non sarà – ancora – Gedda, Kraus o Beczala (cito in ordine cronologico i miei tenori di riferimento visti dal vivo), ma fa loro buona compagnia.
Alexander Duhamel è un buon Lescaut, personaggio importante e ingrato, anche se forse non è quello che gli si confà di più (una sola volta ho visto un grande Lescaut ed era il giovane Tézier); per figura e agilità mi è sembrato preferibile Jarrett Ott, che però dovrebbe vigilare su un registro grave troppo aperto e capire che nei couplets dell’atto terzo si può essere espressivi senza indugiare troppo sulle parole a scapito della linea di canto.
Laurent Naouri è sempre un artista distinto e molto espressivo, anche se la voce non è nel miglior momento della carriera, ma come conte Des Grieux è sempre preferibile a Jean-Vincent Blot, che ha sì una voce più timbrata e salda ma è sempre monotono e meccanico nel fraseggio, e ha un attacco più che incerto all’inizio della sua aria, “Épouse quelque brave fille”.
Albert Casals canta bene nel ruolo di Guillot, ma è più comico che sgradevole (anche se deve andare a inginocchiarsi davanti a Manon in mutande nell’atto primo). Corretto Tomeu Bibiloni (un De Bretigny di timbro opaco), così come Pau Armengol (l’oste). Le tre “signorine”, qui decisamente prostitute e basta, sono cantate, ballate e recitate con grande entusiasmo da Inés Ballesteros (Poussette), Anna Tobella (Javotte), e Anaïs Masllorens (Rosette).
Il pubblico – meno folto, ma più educato, nella seconda delle due recite –  ha applaudito calorosamente i protagonisti soprattutto a fine spettacolo.

Barcellona, 26 e 27 aprile 2023

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