Ed eccoci al primo appuntamento della nuova stagione. Che comincia bene, anche se non benissimo. Evgenij Onegin di Čajkovskij mancava da molto tempo al Gran Teatre del Liceu e il suo ritorno era doveroso (anche se mi pare che il pubblico qui gli preferisca La dama di picche). Certo, ci sarebbero altre partiture da rispolverare: Iolanta, per esempio, è passata fugacemente in forma di concerto con i complessi del Mariinskij al completo capitanati da Anna Netrebko e diretti da Valerij Gergiev (presenza oggi impensabile).
L’allestimento, per la regìa di Christof Loy, è una coproduzione con la Norske Opera di Oslo, dove è già andato in scena, e con il Teatro Real di Madrid. Loy dirige benissimo gli attori, approfondisce nel dettaglio ogni personaggio, ma tende a inserire nello spettacolo troppi figuranti e controscene poco o niente rilevanti per il dramma principale. Così la casa di Larina presenta una quantità di inservienti mai vista e pure qualche coppietta che si lascia andare a carezze spinte. Olga, oltre che pesantemente truccata, è troppo frivola: prima di ballare imprudentemente con Evgenij davanti a Lenskij, gioca allegramente nell’atto primo con l’inserviente, ovviamente conteso da tante donne. Filipp’evna, la balia, appare in tutta l’opera ma la sola cosa che fa all’atto terzo è lanciare occhiate furibonde al protagonista. Quest’ultimo viene visto nei primi due atti come un tipo troppo rozzo e disposto a scherzi e gesti facili. Il duello è poi la scena più sbagliata, con tutti presenti e una specie di Cherubino quale padrino di Onegin, che uccide quasi non volendo Lenskij che vuol morire (ma, credo, non felice di restare poi steso per terra fino alla fine della polacca dell’atto terzo – una sorta di versione in lutto de La ronde di Matisse – prima cadavere, poi fantasma che tortura l’amico fedifrago finché se ne va con tutti gli altri “allegri” ospiti). Monsieur Triquet è un simpatico pagliaccio che distribuisce palloncini di compleanno (Tat’jana non sa cosa farsene del suo). Sicché i soli personaggi del tutto azzeccati risultano Tat’jana e Lenskij (forse anche Larina, per quanto un po’ troppo vivace).
Poi c’è la scena dell’atto finale, e lì tutto cambia e diventa un incontro toccante di due anime rimaste sole – anche fisicamente per fortuna – quando potevano vivere felici insieme. La ‘maturità’ stupidamente orgogliosa di Tat’jana e la disperazione ormai inutile di Onegin vengono finalmente a galla e dimostrano, se ancora ce ne fosse bisogno, che ‘meno’ è ‘più’: un muro di un bianco accecante contro cui si dibattono e si spezzano due esseri umani destinati, come tutti, all’infelicità. Puro Čajkovskij.
L’appagante livello tecnico della compagine orchestrale è senz’ombra di dubbio l’elemento più rilevante del lavoro portato a termine dal direttore musicale, Josep Pons, e di questo gli va dato atto. Che poi il Maestro sia più a suo agio in altri repertori che nel romanticismo russo è un altro conto. Troppo volume, non sempre la dovuta attenzione ai bisogni del palcoscenico, ritmi un po’ accelerati nelle scene di ballo, una espressività troppo spoglia e un lirismo troppo riservato, non paiono le armi migliori per tradurre il mondo dell’amico Pëtr Il’ic. Il coro canta molto bene (il lavoro di Pablo Assante ha chiaramente dei risultati positivi) e l’orchestra esegue molto bene la partitura.
Come sempre si alternano due compagnie. I cantanti della prima, di cui riferiamo qui, figurano quasi tutti bene, a partire dall’interprete del piccolo ruolo del Capitano (il bravo Josep Ramón Oliver). In assoluto, forse, chi riscuote l’applauso più lungo dopo la sua aria è il Gremin di Sam Carl, un bravo basso. A seguire, il Lenskij di Alexey Neklyudov, voce di timbro schiettamente lirico, anche se un po’ impersonale, e buon interprete. La Tat’jana di Svetlana Aksenova ha pure lei il suo applauso ma la grande scena della lettera non sembra così grande. Voce un po’ leggera, non aiutata dall’orchestra, non riesce a restituire tutta l’immensa emozione e passione di chi ha trovato per la prima (e ultima) volta il vero amore. Ottima attrice, risulta più interessante in altri momenti, in particolare nell’atto finale.
Il caso del protagonista è diverso. Audun Iversen è un baritono di voce e figura importanti ma, complice la messinscena, disegna un Onegin davvero sopra le righe (è vero che il coro dice peste e corna di lui nel secondo atto, ma si tratta del punto di vista di una borghesia di provincia, non credo sia un’idea da attribuire a Puškin e nemmeno a Čechov, al cui mondo fa pensare qualche volta l’allestimento).
Victoria Karkacheva canta benino Ol’ga, con voce mezzosopranile di non grande peso. Liliana Nikiteanu sfoggia una bella personalità nei panni di Larina, ma non mancano suoni ingolati e qualcuno decisamente brutto (quel “poshchadite” – pietà – pieno di angoscia che qui suona come un’espressione di schifo o dispetto – e che dà origine al grande concertato del atto secondo). E c’è la Filipp’evna di Elena Zilio, una roccia quanto a volume e timbro, sempre disposta a nuove sfide. Una parola ancora per il bravissimo Monsieur Triquet di Mikeldi Atxalandabaso, ineccepibile sia quando si esibisce in russo che in francese.
Il pubblico che gremisce la sala segue non sempre con attenzione lo spettacolo, e applaude con calore tutti gli interpreti.
Barcellona, 4 ottobre 2023