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Verona, Teatro Filarmonico – Rigoletto

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In un’epoca di relativismo etico e culturale come la nostra, Rigoletto viene recepito – più che in passato – per quello che realmente è: un’opera affacciata sul crinale del nichilismo, che ci parla dell’ambivalenza costitutiva dell’essere umano, e che è pure l’ambivalenza della morale. Verdi vi insinua il dubbio atroce che un codice etico infallibile, universale e razionalmente fondato, forse non esiste e non si troverà mai. In Rigoletto la vita conta meno di niente, il malvagio si salva ed è premiato, mentre l’innocente soccombe. Per alcuni aspetti, sembra di ritrovarvi un’eco delle tesi di Justine, dove l’agghiacciante sistema erotico-funerario di De Sade nega la possibilità di qualsiasi morale, dove il vizio è sempre e comunque trionfante e la virtù vittima di se stessa, delle sue illusioni e rinunce. Si capisce perché la critica dell’Ottocento – molto più lucida di quella novecentesca – considerasse questo capolavoro verdiano moralmente ributtante.

Negli ultimi lustri, alcuni registi hanno voluto sottolineare proprio l’anima nera di Rigoletto e l’ambivalenza che contraddistingue i suoi protagonisti, cercando quindi di trasmettere il turbamento morale che interessava a Verdi. Così, quando al Teatro Filarmonico di Verona si apre il sipario sull’allestimento di Arnaud Bernard, nato nel 2011 e riproposto con successo come secondo titolo della Stagione lirica 2022, si ha subito la sensazione di uno spettacolo interessato a muoversi in quella particolare direzione.
Il contenitore scenico firmato da Alessandro Camera è un teatro anatomico ligneo rinascimentale, nel quale vediamo inizialmente il Duca di Mantova impegnato in misteriosi esperimenti: c’è anche Rigoletto, di cui viene studiata e misurata la gobba come fosse un mostro creato in laboratorio. Più che allo scontato riferimento a Frankenstein, piacerebbe pensare all’Opera al nero degli alchimisti, alla “discesa agli inferi” che consente di sperimentare il fuoco che divampa nel cervello e nell’anima quando viene rimossa ogni forma di ostacolo, tabù o repressione culturale degli istinti. A questo punto, dalla regia di Bernard (qui ripresa da Yamal das Irmich) ci si aspetterebbe una lettura dal taglio spregiudicato, simbolico, o in ogni modo appropriato. E invece lo spunto iniziale, nel corso della rappresentazione, resta pressoché lettera morta, lasciando l’impressione di una trovata horror-pulp fine a se stessa.
In uno spazio scenico bipartito (al termine dei gradoni, divisa da una passerella, si staglia verso l’alto una biblioteca imponente e scura), i personaggi si muovono e recitano in maniera del tutto tradizionale, con qualche gesticolazione di troppo. Nel corso degli atti, al centro del teatro-biblioteca, trovano posto anche un traballante tempietto bramantesco (la casa di Rigoletto) e un barcone avvolto dalla nebbia (la locanda di Sparafucile). L’effetto complessivo è statico, freddo, claustrofobico. E non basta qualche spruzzata criptico-simbolica, come i fogli che piovono dall’alto della biblioteca nella scena dell’omicidio di Gilda, per trasmettere emozione e coinvolgimento.

Alla cifra algida dello spettacolo si oppone, sul versante musicale, la direzione di Francesco Ommassini, in alcuni momenti fin troppo accesa e fragorosa, specie nelle scene iniziali del primo atto, dove viene meno la ricercata alternanza e fusione di piani sonori voluta da Verdi mediante la presenza di una orchestrina sul palco e di una banda interna, utili anche a favorire la intelligibilità delle parole pronunciate dai cantanti. Tutte le parti vengono invece affidate all’orchestra, che non è nemmeno collocata in buca ma al livello della platea con i conseguenti squilibri nel rapporto con le voci in palcoscenico, inevitabilmente sovrastate. Certamente la collocazione dell’orchestra non dipende dal direttore, ma è stata dettata a suo tempo da esigenze di distanziamento sanitario. Resta il fatto che alcune sonorità sono oggettivamente roboanti, e non solo nelle prime scene. Nel corso dell’opera, tuttavia, Ommassini riesce a trovare un maggiore equilibrio e a mettere a punto un ventaglio adeguato di chiaroscuri, colori e sottintesi espressivi che, unitamente al fraseggio duttile, assecondano un flusso narrativo adeguatamente vario e contrastato. Particolarmente centrate le mutevoli atmosfere emotive sottese ai duetti fra Gilda e Rigoletto, ma anche a quello fra Gilda e il Duca.

Luca Micheletti porta sulle scene veronesi (e non solo) una ventata di novità. È un Rigoletto giovanile, dalla voce fresca e brunita nel timbro, improntato a una visione moderna del ruolo: il baritono disegna una figura lacerata, anzi dissociata fra patologia e umano strazio, con fraseggio incisivo, dizione chiarissima, accento ben calibrato e una presenza scenica carismatica, a tratti persino istrionica. Dal punto di vista vocale è sempre controllato nello stile, non incorre mai in sbracature e vezzi tipici della tradizione più retriva. Qualche acuto meno timbrato e un utilizzo piuttosto parco di sfumature e mezzevoci nelle pagine affettuose e paterne del personaggio non intaccano una prova convincente e di grande impatto.
Eleonora Bellocci è Gilda. Inizialmente la giovane cantante dà la sensazione di creare, quasi sulla scia dei soprani leggeri ante Callas, un personaggio stilisticamente all’antica e a senso unico: una donna-bambina emblema del candore e dell’innocenza. Poi però Bellocci dimostra non solo di possedere un peso vocale di tutto rispetto, ma di disporre anche di un’intensità espressiva interessante, specie nel duetto con Rigoletto del secondo atto e in tutto il terzo. Vocalmente la tenuta complessiva è buona, la linea di canto limpida, le agilità e le ornamentazioni (trilli compresi) più che adeguate.
Nei panni del Duca di Mantova, Ivan Magrì si dimostra fra tutti l’interprete più ligio nel rispettare i segni d’espressione verdiani, come conferma l’esecuzione elegante e sfumata, in perfetto stile di grazia, di “Parmi veder le lagrime”. Oltre al versante lirico-amoroso, il tenore rende a dovere pure il carattere spavaldo e sfrontato del personaggio, dimostrando facilità e sicurezza nell’espansione in acuto.
Gianluca Buratto è uno Sparafucile ottimo per la vocalità imponente, il bel timbro scuro e il fraseggio incisivo. Vocalmente corretta, ma anonima nella caratterizzazione la Maddalena di Anastasia Boldyreva, opaco il Monterone di Davide Giangregorio. Funzionali i contributi di Agostina Smimmero, Giovanna, Nicolò Ceriani, Marullo, Filippo Adami, Matteo Borsa, Alessandro Abis, Conte di Ceprano, Francesca Maionchi, Contessa di Ceprano, Nicolò Rigano, Usciere, Cecilia Rizzetto, un paggio. Bene il coro diretto da Ulisse Trabacchin.

Teatro Filarmonico – Stagione Lirica 2022
RIGOLETTO
Melodramma in tre atti di Francesco Maria Piave
Musica di Giuseppe Verdi

Duca di Mantova Ivan Magrì
Rigoletto Luca Micheletti
Gilda Eleonora Bellocci
Sparafucile Gianluca Buratto
Maddalena Anastasia Boldyreva
Giovanna Agostina Smimmero
Conte di Monterone Davide Giangregorio
Marullo Nicolò Ceriani
Matteo Borsa Filippo Adami
Conte di Ceprano Alessandro Abis
Contessa di Ceprano Francesca Maionchi
Un usciere di corte Nicolò Rigano
Paggio della Duchessa Cecilia Rizzetto

Coro e Orchestra e Tecnici della Fondazione Arena di Verona
Direttore Francesco Ommassini
Maestro del coro Ulisse Trabacchin
Regia Arnaud Bernard ripresa di Yamal das Irmich
Scene Alessandro Camera
Allestimento della Fondazione Arena di Verona

Verona, 2 marzo 2022

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