Dibattuta fra cielo e inferno, sussurri e grida, volgarità e finezze, La Gioconda è un drammone romantico, inverosimile e contorto: un feuilleton a suo modo esemplare per la fitta rete di intrighi, l’azione ricca di movimento e colpi di scena. Un tempo popolarissima, a partire dalla seconda metà del Novecento ha iniziato a essere snobbata dalle programmazioni, i grandi direttori hanno preferito tenersene alla larga e buona parte della critica ha finito per considerarla una specie di emblema delle consuetudini più viete del melodramma italiano ottocentesco. Solo da qualche stagione si tende a rivalutarla e alcuni teatri italiani hanno ripreso a inserirla nei loro cartelloni.
L’opera nasce dall’incontro tra due personalità più che mai dissimili: il bonario, modesto e semi-illetterato Ponchielli, musicista comunque valido e rispettoso della tradizione, e il nevrotico, colto, sofisticato Boito, nemico del passato teatrale e insofferente di ogni impaludamento provinciale. Vero è che se questa estrema favola melodrammatica regge ancora al gusto odierno, il merito non è del pretenzioso librettista che, di fatto, mette a punto una summa del romanticismo “anatemico e macàbro” al limite della parodia. A compiere il piccolo prodigio è il buon Ponchielli, che smorza con lo scavo e la pertinenza della musica le vuote acrobazie di versi roboanti e artificiosi. Senza tanti proclami, il compositore dimostra di aver assimilato la lezione del Verdi “progressivo”, in cammino verso la parola scenica, e di saperla sviluppare, infondendo linfa melodica a incisi che in altre mani sarebbero scaduti nell’anonimato. Riesce così a conciliare la tradizione del canto italiano con le nuove acquisizioni armoniche, sinfoniche e strutturali (il ricorso a temi ricorrenti, per esempio) derivate dalla scuola francese e dal teatro di Wagner.
Un’opera senza dubbio rischiosa, La Gioconda, difficile da allestire ed eseguire, che la Fondazione Arena propone per la prima volta al Teatro Filarmonico (repliche fino al 30 ottobre) e a distanza di 17 anni dall’ultima rappresentazione nell’anfiteatro veronese. Con esiti, al di là degli inevitabili distinguo, nell’insieme apprezzabili.
Dal podio, Francesco Ommassini assicura una lettura chiara e duttile della partitura. La linea interpretativa punta a un sostanziale equilibrio espressivo: il maestro depura il fraseggio da tentazioni veriste e smussa gli effetti truculenti, senza per questo sacrificare l’incisività drammatica. Restituisce inoltre l’abbandono lirico con misurata partecipazione e sottolinea con efficacia anche i momenti in cui si dispiegano gli aspetti più nobili di Ponchielli, capace all’occorrenza di un linguaggio sinfonico elegante e di contrappunti sofisticati. Si percepisce insomma, nella direzione di Ommassini, un appropriato e calcolato studio degli effetti. Se vogliamo, manca il guizzo interpretativo originale, il colpo d’ala, tuttavia la capacità di tenere insieme un materiale musicale eterogeneo, garantendo al contempo un accurato lavoro di concertazione con le voci, è fuori discussione.
La compagnia di canto, considerato l’impegno richiesto alle voci, è tutto sommato efficiente. Peccato che la prova più interlocutoria sia proprio quella della protagonista, Monica Conesa. Il giovanissimo soprano cubano-americano è dotato di un buon temperamento, oltre che di bella presenza scenica, e di una voce che si espande bene nel settore acuto, mentre il registro medio-grave presenta inflessioni e anche intubazioni che ricordano da vicino quelle di Maria Callas. L’impressione è che la cantante imiti volutamente la mitica greca non solo in certe emissioni, ma anche nel fraseggio, nell’accento e in alcuni momenti di enfasi. Di fatto, nei punti topici dell’opera, la sua Gioconda è una sorta di calco dell’interpretazione consegnata due volte in disco dalla Callas e manca, pertanto, di una impronta veramente personale. C’è da augurarsi che Conesa si distacchi quanto prima dal celebre modello per trovare la sua via e il suo repertorio, che non dovrà essere necessariamente quello del soprano drammatico.
Angelo Villari delinea un convincete Enzo Grimaldo grazie al bel timbro caldo e omogeneo in tutti registri, all’emissione corretta e all’accento appassionato. Qualche macchiolina nella celebre aria del secondo atto (sporadici slittamenti di intonazione e disagi nelle mezzevoci) non intacca una prova di tutto rispetto. Ottimo anche il Barnaba di Angelo Veccia. La voce di per sé non ha un colore privilegiato, ma è ben timbrata al centro e risonante e facile nel registro acuto. L’interprete, inoltre, non incorre mai in eccessi o effetti di cattivo gusto, ma è sempre analitico nel fraseggio e insinuante nel rendere il carattere bieco e perfido del personaggio.
Nella parte di Laura Adorno si fa valere per la vocalità pastosa, l’emissione omogenea e la tenuta il mezzosoprano polacco Agnieszka Rehlis, autorevole anche scenicamente. La Cieca è Agostina Smimmero, voce da autentico contralto gestita in questa occasione con apprezzabile misura, in grado di delineare il ruolo con duttilità ed espressione patetica intensa. Quanto al basso Simon Lim, ascoltato per molte stagioni e nei ruoli più diversi alla Fenice, si conferma un solido cantante: il suo Alvise Badoero è ben controllato nella linea di canto, adeguatamente gelido e protervo nel tratteggio espressivo. Tra i ruoli di contorno, si distingue lo Zuàne corretto di Alessandro Abis. Gli altri risultano comunque tutti funzionali.
Per Filippo Tonon, che firma regia e scene, La Gioconda non è un vero grand-opéra all’italiana, né un melodramma di impronta politica. Entrambi questi aspetti vengono rimossi da una ambientazione che cala la vicenda all’epoca della composizione dell’opera, negli anni settanta dell’Ottocento, in una Venezia decadente e fatiscente: di fatto siamo già dopo la proclamazione del Regno d’Italia e la potenza della Serenissima è solo un ricordo. Per il regista il capolavoro di Ponchielli è il momento terminale dell’evoluzione dell’opera romantica e apre alle crudezze del verismo, anzi è già opera verista a pieno titolo. Gli intrighi, la malvagità, la crudeltà non hanno motivazioni politiche o storico-sociali, ma sono fini a se stessi, hanno un che di gratuito: non rappresentano il male inteso in senso metafisico, ma il trionfo dell’orroroso, della crudezza e delle esasperazioni veristiche. Nonostante lo spettacolo sia ben congegnato scenograficamente e gestito altrettanto bene dal punto di vista registico, tanto nei movimenti delle masse che nella recitazione dei singoli, si tratta di una visione a mio avviso riduttiva, che rende poco plausibile l’intreccio e finisce per penalizzare pure l’aspetto grandoperistico, come si nota anche nella coreografia rinunciataria della Danza delle Ore, dove peraltro Ponchielli crea un pagina di assoluta modernità, sospesa tra l’omaggio a Offenbach e gli effluvi del ballo Excelsior prossimo venturo.
Alla prima, grandi applausi e successo caloroso per tutti i protagonisti della produzione.
Teatro Filarmonico – Stagione lirica 2022
LA GIOCONDA
Dramma lirico in quattro atti
Libretto di Tobia Gorrio (Arrigo Boito)
Musica di Amilcare Ponchielli
La Gioconda Monica Conesa
Laura Adorno Agnieszka Rehlis
Alvise Badoero Simon Lim
La Cieca Agostina Smimmero
Enzo Grimaldo Angelo Villari
Barnaba Angelo Veccia
Zuàne Alessandro Abis
Un cantore Francesco Azzolini*
Isèpo Francesco Pittari
Un pilota Maurizio Pantò*
Un barnabotto Nicolò Rigano*
Una Voce Dario Righetti*
Un’altra Voce Jacopo Bianchini*
Prime ballerine Evgenija Koskina,
Tetiana Svetlicna, Mina Radakovic
*Artisti del coro della Fondazione Arena di Verona
Orchestra, coro e tecnici della Fondazione Arena di Verona
Coro di Voci Bianche A.LI.VE. diretto da Paolo Facincani
Direttore Francesco Ommassini
Maestro del coro Ulisse Trabacchin
Regia e scene Filippo Tonon
Costumi Filippo Tonon e Carla Galleri
Luci Fiammetta Baldiserri
Coreografie Valerio Longo
Nuovo allestimento della Fondazione Arena di Verona
in coproduzione con lo Slovene National Theatre Maribor,
As.Li.Co. e il Teatro Massimo Bellini di Catania
Verona 23 ottobre 2022