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Valencia, Palau de les Arts – La bohème (Lombardi, Pirgu, Olivieri)

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Vedo sempre meno volentieri le opere più popolari del repertorio e men che meno La bohème, il capolavoro pucciniano bestseller per eccellenza. Considerate le versioni ora discrete, spesso francamente mediocri viste fin qui, non mi entusiasma l’idea di un’ennesima edizione. Per fortuna ci sono le eccezioni alla regola. Per esempio, questa in scena al Palau de les Arts di Valencia. È la ripresa di un allestimento tra i più fortunati di Davide Livermore, che una volta tanto segue quasi alla perfezione il libretto (tranne la scena della chiave, dove escogita una trovata che non è certo delle migliori). Forse tutti quei mimi e camerieri-ballerini, nel quadro del quartiere latino, rivisti oggi risultano troppo ingombranti e ridondanti ma per il resto l’azione procede fluida. Se si ha poi la fortuna di poter contare su un cast giovane e affiatato, privo di atteggiamenti divistici, con voglia di fare teatro e musica, magari divertendosi, il titolo rinverdisce e riacquista tutta la sua freschezza.

Non ho visto mai così motivato Saimir Pirgu, un Rodolfo che se non vanta un timbro proprio solare ha dalla sua degli acuti saldissimi e qualche mezzavoce veramente bella; per il resto la voce corre e si mostra adatta al ruolo, come anche l’attore. Dal canto suo, Federica Lombardi ha una vocalità ideale per Mimì: qui si è notata una certa prudenza negli ultimi due atti, ma è una brava interprete e se ha brillato più nell’aria del primo quadro che nell’addio del terzo, il livello era sempre di tutto rispetto grazie agli apprezzabili piani e al colore bello e omogeneo in tutta la tessitura. Debuttava nel ruolo di Musetta Marina Monzó, che è stata strepitosa (straordinaria la messa di voce nel celebre valzer) e non si è limitata a fare la frivola e a emettere acuti (vedi l’intenso quarto atto). Che dire poi del Marcello di Mattia Olivieri? Il problema con un cantante della sua levatura è che, dopo qualche recensione, non te la senti di ripetere sempre le stesse cose e ti metti malignamente alla ricerca di qualche piccola imperfezione. Un attacco non pulitissimo durante il duetto con Mimì è l’unico rilievo che molto ingenerosamente posso muovergli. Per il resto, devo dire che se nei primi due quadri si è divertito moltissimo, quando poi la situazione tocca il registro drammatico, è stato capace di invertire perfino la gestualità espressiva delle sue mani “manesche”, e dalla pura gioia e dall’irresponsabilità della gioventù ha saputo raggelarci in un baleno quando nel quarto quadro ha sottolineato, con un movimento che mi ha ricordato le famose mani di Régine Crespin, il suo “Nulla…ah miseria!”. Ci si riprende solo per arrivare impreparati al “coraggio!” finale, che ti prende alla gola quasi che qui si suggellasse non solo la morte della protagonista, ma anche dell’innocenza e delle illusioni della gioventù.

Manuel Fuentes è un basso giovanissimo e al suo Colline manca forse manca un po’ di esperienza e una migliore articolazione del testo (in particolare nel quadro primo), ma si notano buone potenzialità. Damián del Castillo è un bravo Schaunard forse più sotto l’aspetto vocale che scenico. Corretti i piccoli ruoli, anche se mi domando chi abbia avuto l’idea di far cantare Alcindoro e Benoît a un cantante giovane e per giunta tenore, Jorge Rodríguez Norton, che fa quello che può. Ottimo il coro della Generalitat Valenciana istruito come sempre da Francesc Perales, come anche le voci bianche dell’Escola Coral Veu Juntes preparate da Amalia Bosó e Andrea Rubio, e dell’Escolanía de la Mare de Déu dels Desamparats diretta da Luis Garrido.

Ho già sottolineato in altre occasioni il pregevole livello dell’Orchestra de la Comunitat Valenciana, applaudita con entusiasmo dal pubblico. Ho invece qualche dubbio sul lavoro del maestro James Gaffigan, attuale direttore musicale. Nessuna pecca tecnica da sottolineare. A pesare sono alcune ondate di suono poco adeguate e incuranti del peso delle voci, e soprattutto l’assenza di entusiasmo e di vero calore strumentale: l’orchestra di Puccini deve “cantare” quasi sempre, e non solo nella Bohème. Per fare due piccoli esempi: “ma quando vien lo sgelo” nella voce di Lombardi aveva una qualità e una sensibilità che non si riscontravano in buca. Quando poi Mimì e Rodolfo restano finalmente soli per il loro ultimo colloquio, c’è un breve passaggio strumentale che non è messo lì a caso: deve spiegare tutto quello non arriveranno mai a dirsi (le “tante cose che ti voglio dire” si riassumono in “una sola, ma grande come il mare”). Ebbene, quel passaggio è stato ben suonato e basta, senza partecipazione. Comunque sia, davvero una bella serata.

Valencia, 19 dicembre

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