Il Teatro Verdi di Trieste chiude la programmazione lirica 2022 con un dittico inedito che, accanto al capolavoro di Ruggero Leoncavallo, Pagliacci, include, quasi si trattasse di una metaforica Ring Komposition che riprendesse la novità d’apertura di stagione, la prima mondiale di Al Mulino di Ottorino Respighi. Quindici anni circa separano le due opere e, se alcune somiglianze esteriori sono riscontrabili, è evidente che il linguaggio musicale, armonico, l’uso dell’orchestra e la scrittura vocale riflettano non solo due personalità e sensibilità diversissime, ma, anche, l’appartenenza a due epoche oppositamente orientate, rispetto alle quali Wagner e Verismo sono uno spartiacque di comodo e velleitario.
Se la lezione del primo è, comunque se ne considerino gli esiti, ormai completamente assimilata, la classificazione di Pagliacci, generalmente accettata, e di Al Mulino, come talora si è tentato di fare, all’interno del Verismo è una forzatura. Il verismo di Leoncavallo è filtrato da molteplici riferimenti meta-teatrali che risalgono al teatro di Terenzio: si confrontino il celeberrimo Prologo programmatico con i prologhi del commediografo latino, la struttura dell’opera in cui Tonio/Taddeo rilegge in negativo il ruolo del servus currens, affidandogli la classica battuta finale – qui correttamente tolta a Canio – comoedia acta est (la commedia è finita) e serbandogli il ruolo di alter ego del poeta, di colui che “fa”, nel nostro caso, il teatro e ne tesse le fila. In Al Mulino, la vicenda, ambientata in Russia, si carica, all’opposto, di inquietudini oppressive di matrice romantica, le quali si legano a un clima di permanente e incerta attesa che anticipa atmosfere quali, in Respighi, ritroveremo in La Fiamma, rimandando a un clima di allucinazione che serpeggia in diverse opere, non solo musicali, del primo Novecento.
Il regista Victor Garcia Sierra offre, di Pagliacci, una lettura a tutti gli effetti classica, posticipata di circa un trentennio, rispettosa del libretto, ma non scontata, per la quale Paolo Vitale disegna un impianto scenico suggestivo in cui una periferia di città, tappezzata di manifesti della versione cinematografica dell’opera (pareva riconoscere quello del film diretto da Mario Costa), si anima dei variopinti elementi del mondo circense: mongolfiere, luci, una grande ruota panoramica proiettata sul fondale, giocolieri e mimi; poco funzionale solo la proiezione durante il duetto Nedda-Silvio della sala del Verdi, inutile gioco di specchi che nulla aggiungeva allo spettacolo. I costumi di Giada Masi – dominava il bianco del coro – davano luce al complesso ed equilibravano i colori generali, coadiuvati dalle belle luci di Stefano Gorreri, mentre i movimenti coreografici – la locandina non riporta i nomi dei due ballerini – riprendevano la dicotomia dell’anima di Canio/Pagliaccio, costretto a ridere sulla scena, ma condannato a un profondo dolore nella vita reale.
Amadi Lagha, nei panni di Canio, convince pienamente: il timbro chiaro acquista colore e armonici nel registro acuto, in cui si muove con sicurezza e senza sforzo. Il fraseggio è vario e curato e non cede mai a quel repertorio di effetti a cui una vecchia scuola di interpreti ci aveva abituati: controlla bene l’arioso “Vesti la giubba” infondendo tutto il pathos richiesto dal climax del verso “ridi Pagliaccio”, la cui frase è intonata con ampiezza senza indugiare, tuttavia, in ritenuti eccessivi. Valeria Sepe è un’eccellente Nedda caratterizzata da un timbro caldo che ben si sposa al carattere sognante della ballata “Stridono lassù” e all’abbandono del duetto d’amore con Silvio. Interprete anche lei misurata, eppure calata nella parte, possiede un registro acuto pieno e di buon volume all’occorrenza. La parte di Tonio pare adattarsi alla voce di Devid Cecconi meglio di quella di Rigoletto, di cui per altro era risultato interprete attento il mese scorso, e mette meglio in evidenza le doti del fraseggiatore e le qualità di uno strumento dal timbro chiaro a proprio agio più nei momenti lirici che in quelli drammatici. Min Kim veste i panni di Silvio con proprietà, offrendo una buona prova tecnica, mentre Blagoj Nacoski è un Beppe persuasivo, ma non ineccepibile nella serenata del secondo atto. Damiano Locatelli e Francesco Paccorini, completano degnamente un cast di buon livello che ha il merito di avere riportato sulle scene del Verdi un’opera che, a dispetto della notorietà, conta a Trieste poche edizioni.
Valerio Galli concede una lettura analitica della partitura, cercando di evidenziare echi wagneriani e di esaltare la cantabilità della melodia, dono di cui Leoncavallo era ricco; e se l’equilibrio fra le sezioni dell’orchestra del Verdi mette in luce impasti e disegni di grande interesse, lo stacco dei tempi piuttosto lenti va a detrimento dell’impeto drammatico, specie in momenti come lo sfogo di Canio “No! Pagliaccio non son”, in cui il tenore è quasi lasciato solo a reggere il peso di una pagina ricchissima di emozioni contrastanti. Il Coro dei Piccoli Cantori della Città di Trieste diretto da Cristina Semeraro affianca con la consueta professionalità e precisione il Coro del Teatro Verdi diretto dal maestro Paolo Longo, colonna portante delle produzioni triestine, e qui impegnato anche in una pagina dell’opera di Respighi.
Dicevamo che alcuni aspetti esteriori (la suddivisione in due atti, la presenza di un intermezzo, il tema della gelosia e di un amore contrastato da altri legami, qui quello padre-figlia) accomuna i due titoli; va detto che, seppure la storia di Il Mulino non sia priva di spunti interessanti, il libretto di Alberto Donini non convince appieno. A un primo ascolto e alla lettura esso pare presentare quei caratteri di debolezza e genericità che caratterizzano buona parte del melodramma italiano a partire dalla giovane scuola in poi. È risaputo che l’opera fu lasciata incompiuta dall’autore e che ebbe solo un’esecuzione privata a Bologna, al pianoforte, nel 1908, non essendo stata poi completata l’orchestrazione a cui Respighi si era dedicato per i soli tre quarti – tutto il primo atto e parte del secondo. A compiere il lavoro è stato chiamato Paolo Rosato che ha anche ricostruito il libretto. Protagonista della vicenda sono il Mulino e il torrente, dei ex machina e metafora sottesa a tutta la vicenda e come tali giustamente presentati da Daniele Piscopo nella triplice veste di regista, scenografo e costumista di uno spettacolo di grande effetto.
Se la vicenda si presenta alquanto statica, è la scrittura di Respighi a rendere la drammaticità e le tensioni che vivono nell’animo dei personaggi. La scrittura orchestrale è tesissima e alterna con sapienza esplosioni sonore a pagine più distese in cui, tuttavia, mai viene meno quel moto inquieto, pregno di presagi a cui si accennava prima; al tempo stesso la capacità di creare impasti sonori rivela già una mano pienamente matura, mentre la scrittura armonica ricchissima e varia, attenta a quanto in quegli anni accadeva in Europa e già rivolta all’uso modale, sono esemplificative di quella dimensione “mondiale” evocata da Paolo Isotta per l’autore. Il lavoro di Paolo Rosato è degno di lode e nessun senso avrebbe cercare il punto in cui la sua mano si è affiancata a quella del compositore, che ha dato alla partitura un’impronta sinfonica in cui le voci sono trattate alla pari degli strumenti: uniche concessioni alla “vecchia” forma del melodramma sono la splendida pagina di Aniuska “Io non sono per voi che un sacco di farina” che chiude il primo atto e il lungo duetto Aniuska-Sergio che domina il secondo, in cui per altro si nota una lieve calo della tensione narrativa.
Afag Abbasova-Budagova Nurahmed ha un interessante strumento dal timbro scuro e doti interpretative che le permettono di creare una Aniuska appassionata e di grande intensità. Zi Zhao Guo, tenore lirico spinto, non trova nella parte di Sergio la sua tessitura ideale; tuttavia anche a lui va il merito di avere affrontato la parte con persuasione e musicalità. Domenico Balzani quale Nicola, il malvagio di turno rivale di Sergio, si dimostra artista eclettico e accurato, mentre Min Kim, Anatolio, riconferma la buona impressione suscitata in Pagliacci. In ruoli minori si fanno apprezzare Cristian Saitta, Pope, Blagoj Nacoski, Ufficiale, Francesco Cortese, Voce lontana, Giuliano Pelizon, Soldato, e Anna Evtekhova, Maria.
Il merito maggiore del successo dell’esecuzione credo vada tuttavia riconosciuto, senza nulla togliere agli altri, a Fabrizio Da Ros che ha diretto e concertato la partitura infondendo tensione narrativa, cura per i colori orchestrali e per il fraseggio, bene assecondato dall’Orchestra del Teatro Verdi e coadiuvato dal Coro del Teatro Verdi diretto da Paolo Longo. Un’operazione interessante e di pieno successo a cui purtroppo il pubblico ha risposto solo parzialmente, preferendo alcuni lasciare la sala dopo Pagliacci. Il nuovo, quando anche arrivi dal passato, fa sempre – purtroppo – paura.
Teatro Lirico Giuseppe Verdi – Stagione lirica e di balletto 2022
PAGLIACCI
Opera in due atti su libretto e musica di Ruggero Leoncavallo
Canio/Pagliaccio Amadi Lagha
Nedda/Colombina Valeria Sepe
Tonio/Taddeo Devid Cecconi
Peppe/Arlecchino Blagoj Nacoski
Silvio Min Kim
Un contadino Damiano Locatelli
Altro contadino Francesco Paccorini
Orchestra, Coro e Tecnici della Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi
Direttore Valerio Galli
Maestro del coro Paolo Longo
Regia Victor Garcia Sierra
Scene Paolo Vitale
Costumi Giada Masi
Light designer Stefano Gorreri
Con la partecipazione dei Piccoli Cantori della Città di Trieste
diretti da Cristina Semeraro
AL MULINO
dramma lirico in due atti
di Ottorino Respighi
da un libretto di Alberto Donini
Ricostruzione libretto e completamento orchestrazione Paolo Rosato
Aniuska Afag Abbasova-Budagova Nurahmed
Nicola Domenico Balzani
Sergio Zi Zhao Guo
Pope Cristian Saitta
Anatolio Min Kim
Maria Anna Evtekhova
Ufficiale Blagoj Nacoski
Solo (lontano) Francesco Cortese
Soldato Giuliano Pelizon
Direttore Fabrizio Da Ros
Maestro del coro Paolo Longo
Regia, scene e costumi Daniele Piscopo
Nuovo allestimento della Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi
Trieste, 12 giugno 2022