Chiudi

Trieste, Teatro Verdi – La bohème

Condivisioni

Programmata per febbraio 2020 e annullata a causa dell’emergenza sanitaria, approda al Teatro Verdi di Trieste La bohème, amato capolavoro di Giacomo Puccini. Forse per il taglio drammaturgico che procede per cesure ed elisioni – Scènes de la vie de Bohème recita il titolo del romanzo di Henry Murger in cui l’autore rievoca la sua gioventù letteraria –, quasi quattro scatti fotografici sulla vita dei protagonisti, l’opera è stata a lungo etichettata, con il nome del compositore e con buona parte della produzione per il teatro d’opera del periodo, con il generico e miope epiteto di “verista”: ma se anche il padre del verismo in Italia, Verga, fu fotografo prolifico e oggi apprezzato anche per quanto ha lasciato in questo campo, la definizione, riferita a La bohème, ignora quanto vi permane del tardo romanticismo, dell’esperienza wagneriana e soprattutto quanto di nuovo, per curiosità intellettuale di Puccini, e genialmente orientato al futuro, in essa penetra.

Come Puccini, dunque, sofferma lo sguardo su un ristretto numero di istantanee della vita dei protagonisti, lasciando al pubblico il compito di ricostruire il trascorso e la trama, così sembra fare il regista Carlo Antonio De Lucia, che con Alessandra Polimeno firma anche le scene, offrendo al pubblico triestino un allestimento tradizionale, che nasce da un rassicurante senso di déjà-vu, di conoscenza che le cose andranno come ci ricordiamo siano già accadute. Non si intenda ciò, tuttavia, come una nota negativa, perché, sostenuto da un solido senso del teatro, dalla conoscenza del testo e dal rispetto per lo spartito, nonché da una programmatica scelta narrativa che riporta direttamente a Puccini, De Lucia costruisce uno spettacolo funzionale, solido, di buon gusto, pur nella scarsità di mezzi, con alcuni ammiccamenti (volontari?) all’immaginario più recente: ecco che l’ampia vetrata inclinata che affaccia su Parigi richiama l’appartamento della serie cult Friends, mentre il frac tutto paillettes di Musetta, un po’ chanteuse un po’ Sally Bowles di Cabaret, ci precipita anacronisticamente in avanti rispetto all’ambientazione e ai costumi di Giulia Rivetti.

L’interpretazione proposta dal Maestro Christopher Franklin non sembra offrire particolari illuminazioni e non riesce a tradurre in una narrazione musicale la meticolosa ricchezza delle indicazioni pucciniane, limitando le dinamiche al mezzoforte e al forte, con il risultato di coprire a volte le voci; alcune scelte agogiche appaiono discutibili e, rifuggendo da languori stucchevoli, mettono talora in difficoltà i cantanti, facendo registrare degli scollamenti fra golfo mistico e palcoscenico. Va detto che le prove sono state rese problematiche da alcune defezioni causate da sindromi influenzali, ma al netto di ciò, permane l’impressione di una lettura non risolta.

Chiamato all’ultimo momento a sostituire Alessandro Scotto di Luzio, e annunciato da un curriculum di tutto rispetto, Azer Zada, tenore azero, veste i panni di Rodolfo. Poiché la sostituzione è stata comunicata a poche ore dalla prima, è verosimile pensare che non vi stato il tempo sufficiente per provare a fondo; concediamo, dunque, anche a Zada le attenuanti a fronte di una recita francamente difficile, di cui riferiamo a titolo di cronaca, in attesa di risentirlo in un’esecuzione preparata con cura. La voce chiara, da tenore lirico, a tratti di grazia, ha un timbro piacevole ma risulta priva di squillo in acuto, con problemi di intonazione nel passaggio e acuti aperti e calanti. È evidente, nel fraseggio e nell’emissione, un approccio prudenziale, non supportato certamente da alcuni improvvidi rallentando da parte del direttore in corrispondenza di frasi ascendenti, come, ad esempio, il passaggio che chiude la romanza del primo atto. Ne risulta un Rodolfo necessariamente abbozzato e spaesato.

Nel ruolo della protagonista, Lavinia Bini sfoggia un bel timbro da soprano lirico sorretto da una solida tecnica. Fraseggia con gusto ed esibisce una variegata tavolozza dinamica che le consente di ritrarre una Mimì sfaccettata; se la frase “ma quando vien lo sgelo” manca, forse, di stupore e di un afflato caloroso che renda il significato del testo, la cantante ci regala una bella interpretazione di “Donde lieta ne uscì” giustamente applaudita. La sua Mimì è una donna consapevole, spaventata dalla vita che, privata di alcune ingenuità, si arrovella per essa e guarda già al dramma della maturità delle future eroine pucciniane. Federica Vitali le fa da degno contraltare e incarna perfettamente, al netto di alcune asperità del timbro, compensate per altro da una pregevole preparazione tecnica, il suo contraltare: lei sì, gaia sino all’eccesso, esuberante, provocatoria, teatrale come il personaggio richiede, è una Musetta colma di aspettativa di leggerezza e pienezza di vita che si vorrebbe riconoscere alla bohème.

Leon Kim è un ottimo Marcello sia vocalmente che per physique du rôle: voce sonora, chiara, fraseggia con gusto e si muove abilmente entro i confini della doppia anima del personaggio, estroverso e rudemente malinconico. Fabrizio Beggi dona un bel timbro di basso chiaro al posato filosofo Colline e si fa apprezzare nella misurata esecuzione della celeberrima aria del quarto quadro “Vecchia zimarra”, apparentemente una concessione di Puccini alla tradizione, ma che, forse, racchiude il vero e più profondo significato dell’opera: una marcia funebre disincantata per un apparentemente futile capo, nelle cui tasche tanti pensieri, liberi da pressioni e convenzioni dei benpensanti, hanno trovato rifugio, metafora della giovinezza spensierata che Mimì morente si porta via con tutti i sogni e le gioie che l’avevano animata: “ora che i giorni lieti fuggir, ti dico addio fedele amico mio” è il saluto estremo a un tempo e a un’epoca che inesorabilmente si chiudono lasciando presagire la solitudine di chi rimane e di ciò che verrà.

Positive anche le prove di Clemente Antonio Daliotti che, nel ruolo di Schaunard, completa degnamente la bella compagnia, Alessandro Busi, simpatico e mai sopra le righe sia come Alcindoro sia come Benoit, Andrea Schifaudo, allegro Parpignol, Damiano Locatelli come sergente dei doganieri, Giovanni Palumbo, un doganiere, e Andrea Fusari, un venditore ambulante. Il Maestro Paolo Longo dirige con professionalità il coro del Teatro Verdi mentre preparatissime risultano, come sempre, le voci nuove dei Piccoli Cantori della Città di Trieste, istruiti con paziente competenza e passione dal Maestro Cristina Semeraro.
Il pubblico in sala ha decretato un soddisfacente esito dello spettacolo.

Teatro Lirico Giuseppe Verdi – Stagione 2022/23
LA BOHÈME
Opera lirica in quattro quadri
Libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa
da Scènes de la vie de Bohème di Henry Murger
Musica di Giacomo Puccini

Mimì Lavinia Bini
Rodolfo Azer Zada
Musetta Federica Vitali
Marcello Leon Kim
Colline Fabrizio Beggi
Schaunard Clemente Antonio Daliotti
Alcindoro/Benôit Alessandro Busi
Parpignol Andrea Schifaudo
Il sergente dei doganieri Damiano Locatelli
Un doganiere Giovanni Palumbo
Un venditore ambulante Andrea Fusari

Orchestra, Coro e Tecnici della Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste
Direttore Christopher Franklin
Maestro del coro Paolo Longo
Coro I Piccoli Cantori della Città di Trieste diretti da Cristina Semeraro
Regia Carlo Antonio De Lucia
Scene Alessandra Polimeno e Carlo Antonio De Lucia
Costumi Giulia Rivetti

Nuovo allestimento della Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste
Trieste, 9 dicembre 2022

image_print
Connessi all'Opera - Tutti i diritti riservati / Sullo sfondo: National Centre for the Performing Arts, Pechino